Teoria selvicoltura sistemica – open

doi: 10.4129/selv-sis

coperta selvsisCitazione/Citation
Ciancio O., 2010 – La teoria della selvicoltura sistemica. i razionalisti e gli antirazionalisti, le “sterili disquisizioni” e il sonnambulismo dell’intellighenzia forestale. Accademia Italiana di Scienze Forestali, Firenze, 51 p.

Autore /Author
Orazio Ciancio – Presidente dell’Accademia Italiana di Scienze Forestali; ciancio@aisf.it

Titolo
La teoria della selvicoltura sistemica. i razionalisti e gli antirazionalisti, le “sterili disquisizioni” e il sonnambulismo dell’intellighenzia forestale

Title
The theory of systemic silviculture, the rationalist and antirationalist, the “sterile disquisitions” and the somnambulism of forest intelligentsi

Parole chiave: selvicoltura sistemica; selvicoltura naturalistica; cultura del bosco.
Key words: systemic silviculture; close to nature silviculture; culture of the forest.

Riassunto
Prendendo spunto da sette scritti apparsi nel 2009 sulla Rivista Sherwood, che analizzano in maniera critica la teoria della selvicoltura sistemica, il saggio ripercorre i punti salienti del dibattito che si è aperto sulla questione «selvicoltura naturalistica» versus «selvicoltura sistemica». Nella prima parte si sottolinea l’importanza della enunciazione delle teorie per il progresso scientifico e si evidenziano le differenze tra la scienza e la tecnica in ambito forestale. Inoltre, si illustra l’iter che ha determinato un ritorno alla natura in selvicoltura e l’evoluzione della selvicoltura in Europa e in Italia a partire dalla fine del XIX secolo fino ai giorni nostri. In particolare, si analizza la cosiddetta selvicoltura naturalistica e le diverse forme a essa riconducibili, attraverso un excursus del pensiero e delle teorie di alcuni dei più significativi Maestri delle Scienze forestali. Nella seconda parte del lavoro si riflette su alcune questioni specifiche poste nei sette articoli allo scopo di fare chiarezza sulle differenze tra la selvicoltura sistemica e la cosiddetta selvicoltura naturalistica. L’analisi evidenzia la mancanza di definizioni e principi teorici di riferimento relativi alla cosiddetta selvicoltura naturalistica, e si conclude pertanto con un invito a esaminare con maggiore dettaglio e precisione la problematica in questione.

Summary
Starting from some issues contained in seven papers published in 2009 on the Italian review Sherwood, that critically analyze the theory of systemic silviculture, this essay focuses on the current debate on “close to nature silviculture” versus “systemic silviculture”. In the first part the importance of the enunciation of a theory for scientific progress is underlined, and differences between science and technique in forestry are emphasized. Furthermore, the process that led to a return to nature in silviculture is described, with reference to silviculture evolution in Europe and in Italy from XIX century to present time. In particular, the so-called close to nature silviculture and similar forms are analyzed, through an excursus of thought and theories of the most important Masters of forest sciences.In the second part of the essay some topics of the above mentioned seven papers are critically analyzed, with the aim of clearing the differences between the so-called close to nature silviculture and systemic silviculture. The study shows the lack of definitions and theoretical principles of reference in the so-called close to nature silviculture and thus ends with an invitation to examine the issue with greater detail and accuracy.

Ogni qualvolta una teoria ti sembra
essere l’unica possibile, prendilo come
un segno che non hai capito né la teoria
né il problema che si intendeva risolvere.
Karl Popper

1. Premessa
Nella Rivista Sherwood, a partire dal n. 149 fino al n. 152, sono apparsi sette articoli (1) relativi alla mozione finale del Terzo Congresso Nazionale di Selvicoltura, svoltosi nel 2008 a Taormina; mozione approvata per acclamazione. Nel corso di quell’evento è stata riproposta all’attenzione del mondo forestale scientifico, politico, amministrativo, industriale, imprenditoriale, tecnico e operativo la teoria della selvicoltura sistemica. Teoria che nei suddetti articoli talvolta è oggetto di frettolosi e marginali rilievi critici e talaltra di vivace dibattito. Ciò è naturale – per restare nel tema! – che avvenga perché il coraggio delle idee spesso non paga, almeno così sostengono in molti. Ma, da inguaribile ottimista, sono certo che il tempo è galantuomo (2).
Quanto asserito in tali articoli si può ricondurre a un dissenso fragile e, per certi versi, inconsistente, perché figlio di un modo di pensare debole e storicamente determinato da criteri inadeguati e, soprattutto, inattuali. Un dissenso tutt’al più utile per comprendere le varie opzioni in campo, ma non in grado di dirimere la delicata problematica posta all’ordine del giorno dell’attuale contingenza selvicolturale e, più in generale, della questione forestale.
Una cosa è certa. La ritrosia ai cambiamenti che si registra nel mondo forestale contrasta con la rapidità dei mutamenti socio-economici e culturali che avvengono nella società. Tali mutamenti impongono un altrettanto rapido adeguamento della gestione forestale. La società richiede maggiore attenzione e rispetto nei riguardi della foresta, mentre l’idea forza che da sempre sostiene l’attività forestale fondamentalmente è l’agire secondo princìpi economico-finanziari.
Chi propone cambiamenti spesso è tacciato di ideologismo, assolutismo, dogmatismo, integralismo, se non addirittura di fondamentalismo. I casi di Bernard Lorentz, Adolphe Gurnaud, Adolfo Di Bérenger, Alfred Möller, per citare solo quelli più eclatanti, sono lì a dimostrarlo. Epperò, nessuno di coloro che contrastava le tesi di questi eretici (3) forestali poneva domande, dava solo risposte. Nel mentre sarebbe bene che tutti ricordassero una esemplare definizione di Claude Lévi-Strauss «Lo scienziato non è l’uomo che fornisce le vere risposte; è quello che pone le vere domande».
Nel dibattito che si è aperto sulla questione «selvicoltura naturalistica» versus «selvicoltura sistemica» due sono gli aspetti che immediatamente saltano agli occhi. Il primo riguarda il numero degli interventi, a dimostrazione che della selvicoltura si hanno idee diverse e si danno svariate interpretazioni.
Il secondo riguarda cosa si debba intendere per teoria in campo forestale. Per teorie, si sa, si intendono le ipotesi che deduttivamente predeterminano la formulazione dei princìpi fondanti di una scienza – nella fattispecie la selvicoltura – con lo scopo di spiegare i fenomeni naturali e antropici che interagiscono con il sistema biologico complesso bosco. Tali princìpi costituiscono la base dalla quale deriva la tecnica e la pratica operativa.
Le ipotesi, le deduzioni e la definizione dei conseguenti princìpi sono parte decisiva delle fasi di un processo logico che, a un esame degli articoli in questione, non pare sia a tutti noto. Difatti, quasi sempre si confonde la scienza con la tecnica e questa a sua volta con la pratica operativa.
E poiché tra l’altro si avvertono difformità che l’innovazione scientifica induce sul particolare svolgimento teorico, tecnico e pratico operativo, nel prosieguo cercherò di analizzare, sceverare, capire e valutare le principali motivazioni che animano il dibattito.
Chi avrà la costanza di leggere fino in fondo questo saggio si renderà conto che i motivi del contendere sono risolvibili poiché la base di ogni opzione è la consapevolezza della necessità di tutelare e valorizzare la funzionalità del sistema biologico bosco. Mi corre però l’obbligo di fare ai lettori una raccomandazione: occorre uno sforzo culturale associato al tentativo di cancellare dalla memoria i pregiudizi che una tale problematica, che investe aspetti scientifici, tecnici, economici ed etici, pone a professionisti abituati a esaminare e vedere le cose con i «tempi forestali».
La lettura presuppone la mente libera dalle ingombranti dottrine che da oltre 250 anni sono patrimonio culturale di tutti i forestali. Il perché è presto detto. Sono convinto che questo saggio, per chi si accosta per la prima volta al problema, ha carattere di novità. Ma, sulla base della mia cinquantennale attività, ho maturato la convinzione che, al di là del dibattito in corso, sia meglio cambiare il punto di partenza, ricordando prima a me stesso e poi a chi è interessato alla questione forestale, che procedere come se in oltre un secolo non fosse cambiato nulla o ben poco nella coltivazione e gestione del bosco, è assolutamente riduttivo. Agli interlocutori chiedo solo una analisi libera da preconcetti. Audiatur et altera pars.

2. Il dibattito è il «sale della scienza»
Come ebbi a sostenere all’apertura dell’Anno Accademico 2009 dell’Accademia Italiana di Scienze Forestali, il valore scientifico di un Congresso generalmente si misura dal numero dei partecipanti e dai contenuti scientifici e tecnici. E, invero, al suddetto Congresso hanno partecipato oltre seicento studiosi e ricercatori e in molti casi sono stati esposti contributi originali (4).
Basterebbe questo per essere pienamente soddisfatti del lavoro svolto dai promotori. C’è però un secondo modo di accertare se un Congresso ha contribuito realmente al progresso della scienza e della tecnica, ovvero l’entità e la qualità del dibattito che solleva tra i partecipanti e non. Ed è ancor più significativo se gli scambi dialogici o le controversie, i dibattiti o le dispute si svolgono a margine del Congresso. Il che non sempre avviene, come è stato nel caso del Primo e del Secondo Congresso.
Il dibattito in corso è l’ulteriore conferma della validità del Terzo Congresso di Selvicoltura che ha proposto postulati, teorie e idee innovative sulle quali si ritiene utile e opportuno esprimere opinioni o favorevoli o divergenti. Ma, questo, si sa, è il «sale della scienza». L’unica costante della scienza è il cambiamento. Guai se ciò non accadesse. Non ci sarebbe progresso scientifico, tecnologico e culturale.
L’evoluzione scientifica e tecnologica si concreta attraverso la messa in discussione delle idee che vanno oltre il comune pensare e il sapere costituito, quando cioè si prospettano nuovi orizzonti. Ritengo che il verificarsi di questo fenomeno, ormai da tempo latente, o meglio, in evidente crisi nel settore forestale, sia un vero e proprio successo del Congresso e di coloro che vi hanno partecipato.
I percorsi tracciati dal Congresso che ritengo si svilupperanno nel prossimo futuro e a medio lungo termine si possono così sintetizzare: 1) decisioni partecipate e informate; 2) ricerche innovative; 3) nuovo orientamento culturale.
Sono percorsi che se attuati possono contribuire a una mutazione consapevole della selvicoltura, dando vita a una reale e credibile gestione forestale sostenibile. Le decisioni non partecipate portano inesorabilmente alla sconfessione di programmi e piani, anche se tecnicamente validi, perché in contrasto con la volontà di sapere e, soprattutto, di partecipare e comprendere da parte delle collettività interessate.
La ricerca di per sé dovrebbe, e sottolineo dovrebbe, essere sempre innovativa. Spesso però, consapevolmente o meno poco importa, si ripete il già noto, altre volte si aggiunge qualcosa al già formalizzato, come ormai accade da molti lustri con la cosiddetta selvicoltura naturalistica e forme similari (5). Ciò può essere utile al momento, ma non apre nuovi orizzonti, cioè non provoca quella che comunemente si definisce una rivoluzione scientifica.
In altri termini, perlopiù si opera per migliorare i contenuti di un contenitore che resta sempre uguale, immodificato nel tempo. Invece, sarebbe necessario sviluppare una ricerca che sia in grado di provocare un cambiamento del vecchio contenitore che dal periodo scolastico in poi ha codificato, orientato e definito l’attività tecnica e scientifica del mondo forestale.
Alle volte vien quasi da pensare che le idee antiquate, ma tuttora ben radicate, siano il riflesso di un mondo forestale superato e in contrasto con quel poco che si sa del sistema biologico complesso bosco. Insomma, c’è bisogno di un nuovo pensiero, di una nuova prospettiva nei confronti della natura, o, se si vuole, di un diverso modo di vedere il bosco. Bisogna rendersi conto che si è verificato un cambiamento nel rapporto uomo natura. Un cambiamento che, oltre ad avere un significato etico, si concreta in un nuovo e diverso modo di affrontare i problemi scientifici, tecnici, economici e sociali.
Il nuovo orientamento culturale è insito nei due precedenti percorsi. Dunque non è necessario soffermarsi ulteriormente. Se qualcuno si domanda perché si è voluto mettere al centro dell’attenzione del Congresso la «cultura del bosco», la risposta è molto semplice, anzi ovvia: la cultura è l’unico vero bene dell’umanità; un bene che diventa più grande se molti vi partecipano attivamente.
Leibundgut (1960) osserva: «Il bosco assolve nello spazio vitale dell’uomo anche un compito culturale, di cui in nessun paese di antica civiltà, più che in Italia, vi può esserci comprensione». D’altra parte, questo è il primo compito e il principale impegno di tutti gli studiosi degni di questo nome: creare le condizioni per lo sviluppo del settore forestale e per il progresso delle Scienze forestali e ambientali, nonché per la crescita culturale del mondo forestale.
La questione da me posta, quindi, non solo è di una semplicità elementare, ma vieppiù è anche lapalissiana e quindi suppongo che almeno su questo tutti concorderanno. È banale sottolinearlo, ma spesso non se ne ha la giusta consapevolezza: l’aspetto scientifico relativo alla selvicoltura – attività che agisce sul e nel bosco, entità biologica complessa – è preminente rispetto a quello tecnico e pratico operativo.

3. Il linguaggio del bosco
Il laboratorio del forestale è il bosco. Penso che almeno su questo quasi tutti possano concordare. Non si può fare degnamente il forestale senza passione. Chi fa il forestale lo fa con una intensa partecipazione emotiva, ama la natura in tutte le sue espressioni ed è il più grande estimatore del bosco per quello che esso è e per quello che rappresenta.
Il bosco è uno straordinario sistema vivente che arricchisce spiritualmente e culturalmente chi a esso si avvicina con rispetto e amore. Lo studio di tale meraviglioso sistema non solo è un vero piacere ma è anche uno stimolo a meglio comprendere la complessità che lo caratterizza (Ciancio e Nocentini, 1996a; 2008).
Leibundgut (1960) annota: «La complessità di un tale sistema appare comprensibile se si pensa che i componenti specifici interessati sono dell’ordine delle migliaia. Quanto più numerose e quanto più differenziate sono le specie partecipanti alla struttura di una biocenosi, tanto più stabile risulta di norma il complesso».
Ho sempre seguito l’aurea regola che s’impara attraverso quattro momenti: pensando, osservando, studiando, e, soprattutto, facendo. In virtù di tale regola, in età giovanile e ancora forestale in pectore – erano gli anni 1952-1953 –, ho effettuato rimboschimenti in alcuni bacini montani della Calabria perché ciò era ritenuto indispensabile per sanare gli effetti della distruzione del bosco avvenuta nel corso e subito dopo l’ultimo conflitto mondiale e in tal modo limitare le conseguenti alluvioni che tante catastrofi e non pochi lutti avevano comportato.
In questo frangente ho cominciato ad analizzare le condizioni climatiche e pedologiche delle zone dove operavo. Osservavo quello che restava del bosco circostante e con impegno studiavo le caratteristiche delle specie da impiegare. Di queste esaminavo le peculiarità delle piante da mettere a dimora, meditando sugli effetti che tali operazioni avrebbero comportato per la difesa e la salvaguardia del territorio.
Ho poi avuto la possibilità di conoscere e, per un certo lasso di tempo, di convivere – volutamente faccio riferimento solo ad alcune formazioni del meridione d’Italia – con le cerrete dell’Alto Fortore, le pinete di loricato del Pollino, le pinete di laricio della Sila, le abetine di Serra San Bruno, le faggete dell’Aspromonte, le pinete di domestico dei Peloritani, le sugherete della Sicilia nord-orientale, per citare alcuni dei tanti casi nel territorio nazionale e non ai quali mi sono interessato e appassionato. E, in un continuo balenar di pensieri che inevitabilmente mi sovvenivano a seguito della scrupolosa osservazione, ho potuto apprendere che il bosco si esprime con un suo specifico linguaggio.
Parlare con il bosco significa rendersi conto che esso è un sistema biologico complesso. Ascoltare il bosco e capirne le necessità, in modo poi da agire in suo favore e di riflesso in favore dell’uomo, è stata una sorprendente e bellissima esperienza. Comprendere e imparare il linguaggio del bosco è stato appagante anche se a onor del vero bisogna dire che solo un grande amore e un’infinita pazienza permettono di interpretare il linguaggio di questo sistema altamente complesso.

4. L’ipotesi, il momento creativo e quello conoscitivo
In questi ultimi tempi, tra i forestali e non, si assiste a un gran parlar di bosco. Un aforisma da me coniato illustra bene il fenomeno: «C’è chi parla di bosco e c’è chi parla con il bosco». A ben guardare, molti, moltissimi parlano di bosco, ma pochi, pochissimi parlano con il bosco. Se si parla con il bosco, allora si comprende che la selvicoltura è la scienza, ripeto la scienza, attraverso la quale l’uomo, componente essenziale del sistema, si adopera in favore del bosco perché sente il dovere di rispettarne le peculiarità, ovvero i suoi diritti. Quei «diritti del bosco» che in prima approssimazione sono rappresentati dalla funzionalità del sistema e dalle innumerevoli interazioni tra i suoi molteplici componenti, alle quali sono direttamente collegate la salute, la stabilità, la continuità nel tempo e nello spazio, la fertilità del suolo ecc. Ma suppongo, anzi sono convinto, che anche su questo punto gran parte dei forestali sia d’accordo.
In selvicoltura, però, i momenti più significativi e salienti di progresso scientifico, quelli che contraddistinguono un’epoca, sono intimamente legati all’enunciazione di princìpi teorici e alla formulazione di ipotesi da cui, attraverso deduzioni di ordine speculativo, è possibile interpretare fenomeni naturali e acquisire aspetti conoscitivi di assoluto valore.
Studiare nel laboratorio bosco è determinante per formulare una serie di ipotesi da valutare e mettere a punto successivamente, al fine di elaborare i princìpi della selvicoltura come disciplina. Gli Enti di ricerca e le Università sono il luogo deputato per tale elaborazione. Qui i ricercatori hanno modo di discutere, analizzare e affinare con i colleghi e, nelle Università, con i docenti delle discipline affini e, soprattutto, con gli studenti, la formulazione dei suddetti princìpi, confrontando il momento creativo – l’ipotesi – con il momento conoscitivo – la cultura del bosco – acquisito nel corso del tempo.
I ricercatori forestali, nell’affrontare problemi diversi da quelli che la selvicoltura ha affrontato in passato, spesso fanno ricorso al paradigma scientifico dei Sistemi Complessi. Ormai molti di essi si sono incamminati e si incamminano sempre più su questa strada che, pur essendo irta di ostacoli, è la sola che può dare risultati di assoluta originalità (Puettmann et al., 2009).
Giorgio Parisi (1994) afferma che il paradigma dei Sistemi Complessi differisce dal paradigma Newtoniano: «Nella fisica Newtoniana: la predizione ha un significato forte ma un dominio di applicazione stretto; il linguaggio è matematico e si traduce in un sistema lineare di equazioni differenziali; nella fisica dei Sistemi Complessi: la predizione ha un significato debole ma un dominio di applicazione ampio; il linguaggio non è ancora codificato. Si tratta di un sistema non lineare poiché il sistema si può comportare in modi diversi: molte componenti interagiscono e soggiacciono a forze contrastanti».
Osservazioni quelle di Parisi assolutamente chiare e comprensibili che purtroppo non fanno parte della cultura dei forestali, anche di quelli il cui credo interpretativo del bosco sono i sistemi teorico matematici e a questa metodologia fanno riferimento allorché ne studiano le caratteristiche. Tuttavia, essi non si rendono conto che i Sistemi Complessi, proprio perché tali, non consentono predizioni certe e, almeno al momento, sono difficilmente definibili per le innumerevoli interazioni tra le numerosissime componenti del bosco.
Dallo studio del linguaggio del sistema biologico complesso bosco al quale si è aggiunto il processo creativo nato in bosco e codificato a seguito delle suddette discussioni è scaturita la «teoria della selvicoltura sistemica». Essa ha avuto origine da un’intuizione seguendo, appunto, la logica del metodo ipotetico-deduttivo. Tale teoria si basa su una rete di analogie e di connessioni logiche che si sviluppa nel tempo e nello spazio attraverso le maglie dei fondamentali princìpi della selvicoltura come scienza. Nella fattispecie, questa rete è collegata al paradigma scientifico olistico o sistemico (Ciancio e Nocentini, 1996b).

5. Il sonnambulismo dell’intellighenzia forestale
Nel corso del tempo sono state illustrate le linee essenziali della selvicoltura sistemica in vari scritti (Ciancio, 1997; Ciancio e Nocentini, 1996a; 1996b; 1996c; 2008; Ciancio et al., 1997) e, in particolare, durante il Secondo Congresso Nazionale di Selvicoltura, svoltosi a Venezia dal 24 al 27 giugno 1998 (Ciancio, 1999).
Il tempo per valutare i pro e i contro di tale teoria è stato sufficientemente ampio per una eventuale confutazione. Tuttavia, studiosi, docenti, ricercatori, amministratori e tecnici, negli anni successivi a quell’importante evento e nonostante la sequenza quasi annuale di scritti sull’argomento (Ciancio, 2000; 2002; 2003; 2005; 2006; 2008), non hanno sollevato obiezioni, né sul piano scientifico, né su quello tecnico, né su quello più propriamente gestionale.
Nel 2009, a distanza di undici anni, e sottolineo undici anni, dal Secondo Congresso, gli articoli che avversano la teoria della selvicoltura sistemica si sono susseguiti a ritmi vertiginosi. Pare quasi che gli appartenenti al mondo dell’intellighenzia forestale improvvisamente si siano risvegliati da un lungo letargo, spingendo il carro della selvicoltura sulla corsia opposta a quella della scienza. Incuranti dei pericoli cui vanno incontro e di quelli che possono provocare all’intero settore forestale, come sonnambuli si incamminano sull’altra corsia, quella della tecnica, che, appunto perché tale, non genera progresso scientifico. Una corsia che a questo precipuo scopo è impercorribile e incongruente. Essi, inconsapevolmente, appunto, come sonnambuli percorrono questa corsia nell’errata convinzione di essere in quella della scienza della quale al risveglio ovviamente non conservano alcun ricordo!
Come si può spiegare tale fenomeno? È plau­sibile che per tanti anni gli addetti ai lavori siano stati distratti da altri problemi? O, forse, si è voluto ignorare l’ingombrante argomento posto all’attenzione del mondo forestale? Per dirla con Claude Lévi-Strauss, io pongo domande e quindi non spetta a me dare risposte. E tuttavia obiettivamente è difficile rispondere a tali quesiti. Lascio quindi ai ricercatori, ai tecnici, agli studenti e ai lettori l’incombenza di decifrare tale comportamento che nel mondo della ricerca è quantomeno inusuale.
D’altra parte, mi rendo conto che l’approvazione di una nuova forma di selvicoltura nella mozione finale di un Congresso, che a prima vista, proprio perché innovativa, può sembrare fuori dal comune sentire dell’establishment, possa provocare un dibattito dal quale si spera emergano idee e spiegazioni scientificamente plausibili su argomenti relativi al problema in essere.
Per evitare inutili fraintendimenti, dico subito che, anche se il dibattito si svolge con notevole incomprensibile ritardo, sono favorevolmente colpito dal fatto che su una mia intuizione ed elaborazione concettuale relativa al sistema biologico complesso bosco si apra un importante confronto. Questo, contrariamente a quanto comunemente si pensa, è un grande riconoscimento, perché oltretutto, a parer mio, il dibattito è il solo modo per favorire il progresso scientifico in campo selvicolturale e per determinare propizie condizioni sociali, politiche e culturali al fine di consolidare ed espandere la gestione forestale sostenibile.

6. Ritorno alla natura in selvicoltura
Riassumere quanto è stato scritto in questi ultimi tempi sull’argomento – il contrasto tra i fautori della cosiddetta selvicoltura naturalistica e i sostenitori della selvicoltura sistemica – è compito assai gravoso. Negli scritti prima menzionati la selvicoltura sistemica è stata oggetto di numerosi rilievi sia sul piano tecnico sia su quello più propriamente operativo. Credo quindi sia più opportuno esaminare alcuni aspetti del problema, scelti fra i più interessanti. Ed è quello che in questo saggio mi propongo di fare.
Epperò, desidero sottolineare che nel dibattito si sono avuti anche riscontri positivi nei confronti della selvicoltura sistemica. In tal senso, e con diverse argomentazioni, si sono espressi su diverse riviste, oltre allo scrivente (Ciancio, 2009b), Francesco Iovino (2009) e Susanna Nocentini (2009).
A proposito della disputa in essere, continuo a domandarmi del perché in nessuno dei sette articoli prima indicati vi sia il tentativo di falsificare la teoria in questione, come è consono oltre che indispensabile in campo scientifico. In quegli scritti pare si faccia l’apologia della cosiddetta selvicoltura naturalistica e non si sia neppure tentato di esaminare sotto l’aspetto epistemologico e scientifico la teoria della selvicoltura sistemica, bensì siano state esposte, con argomenti spesso ripetitivi e a dir poco fuorvianti, opinioni favorevoli verso una forma colturale che con varie definizioni è nota fin dal XIX secolo.
Credo quindi sia opportuno chiarire con alcuni ragguagli l’iter della proposizione prima e dell’affermazione poi della complessa problematica che tra aspri contrasti e accese polemiche ha promosso il ritorno alla natura in selvicoltura.

6.1. L’evoluzione della selvicoltura in Europa
Nel lungo e articolato processo del ritorno alla natura in selvicoltura il pensiero di Karl Gayer ha avuto ampia risonanza proprio perché ha dato un decisivo contributo per l’innovazione e il cambiamento della gestione forestale in Germania. Ma altri A.A., tra i quali alcuni italiani, hanno partecipato a questo importante processo. Epperò, questi ultimi, come sarà messo in evidenza in seguito, nella letteratura italiana, recente e non, sono stati totalmente o parzialmente ignorati.
In Francia, a proposito dell’imposizione di un ordine coatto alla foresta, vi erano voci discordanti. Roger Blais (1936) osserva: «A questo riguardo in effetti alcuni spiriti avvertiti non possono non manifestare una certa difficoltà: essi sentono la natura troppo costretta, l’uomo troppo tiranno, essi dubitano che un metodo così perfetto possa essere definitivo. Esso non permette all’albero e soprattutto alla foresta di sviluppare tutte le sue potenzialità».
Forse non tutti sanno che nel 1833 in Germania nello stato federale del Baden-Württemberg fu promulgata una legge con la quale furono vietati il taglio successivo e saltuario a gruppi (Femel) e il taglio a scelta (Plenter). Questa legge, scrive Hockenjos (1993; 1995), fu considerata progredita e liberale e restò in vigore per 143 anni, cioè fino al 1976. Ma solo nel 1992, dopo ben 159 anni, il Ministero per il territorio regionale, l’alimentazione, l’agricoltura e i beni forestali del Baden-Württemberg, con un decreto invitò i servizi forestali a prevedere, in occasione dell’assestamento, il Femel e il Plenter.
Nel 1883 Adolphe Parade, riprendendo un pensiero di Bernard Lorentz, primo direttore della Scuola di Nancy, scrisse un esemplare ed eloquente aforisma: «Imiter la Nature, hâter son oeuvre» – Imitare la Natura, affrettare la sua opera. E ancora: «Production soutenue, régénération naturelle et amélioration progressive» – Produzione sostenuta, rinnovazione naturale e miglioramento progressivo – due locuzioni che sintetizzano al meglio quella che attualmente da molti forestali è definita selvicoltura naturalistica. In breve, l’obiettivo fondamentale dell’attività selvicolturale è la rinnovazione naturale per assicurare la continuità nel tempo e nello spazio della produzione forestale.
Nel 1884 Adolphe Gurnaud propose di adottare un nuovo metodo di gestione delle foreste. Per la coerenza e l’intransigenza con cui sosteneva le sue idee (6), Gurnaud fu costretto dall’Amministrazione forestale a dare le dimissioni e lasciare il servizio. Egli si rifiutava di imporre un certo ordine alla foresta: quell’ordine che configurava lo scheletro che sosteneva la concezione selvicolturale della foresta artificiale. Oltre a rimettere in discussione la composizione, la struttura e gli ordinamenti della foresta, privilegiando la fustaia mista e disetanea, l’enunciazione del metodo del controllo – La Méthode du contrôle – rappre­sentò una vera e propria rivoluzione.
Nel 1901 Henry Biolley, coerente sostenitore della teoria di Adolphe Gurnaud, divulgò i princìpi su cui il metodo del controllo si fonda, promuovendo una nuova corrente di pensiero. In polemica con i sostenitori del metodo predittivo, schematico e semplificatorio nella gestione delle foreste, nel 1920 egli così si esprime: «Se vi è un campo rimasto chiuso al positivismo della scienza moderna, questo è proprio quello dell’assestamento delle foreste. Non è che non si sia cercato di sottomettere l’assestamento a regole strette, a procedimenti precisi, e se è là che vi è del positivismo, ve ne è in abbondanza e sovrabbondanza. Ma è un positivismo per sé, che resta come esterno all’oggetto che esso pretende di considerare…».
La rinuncia alla nozione di età e la definizione dell’effetto utile rappresentavano un modo diverso di interpretare la coltivazione del bosco. Al gestore, che doveva essere a un tempo artista ed economista, era consentito di operare senza particolari vincoli di natura colturale. Il trattamento era organizzato sotto forma sperimentale. Il fine era quello di armonizzare le forze naturali per conseguire sempre e comunque il massimo di produzione legnosa.
Biolley così si esprime: «Produire: ce mot renferme tout le devoir et devrait résumer tout le vouloir du sylviculteur» – Produrre: questa parola racchiude tutto il dovere e dovrà riassumere tutto il volere del selvicoltore. Egli applicò con rigore nella foresta di Couvet nel Canton de Neuchâtel le jardinage cultural e le Contrôle. Foresta di Couvet che è poi divenuta la meta da visitare da parte dei sostenitori del metodo del controllo e, come scrive Bourgenot (1975), la Mecca della disetaneità.
Nel 1901 Karl Gayer, professore di selvicoltura a Monaco, portava, o meglio, ancora una volta riportava all’attenzione del mondo forestale, tedesco e non, la necessità di un modo diverso di affrontare i problemi forestali con un’altra famosa massima «Zurück der Natur» – Torniamo alla natura – e corroborava tale enunciato con l’espressione «In der Harmonie aller im Walde wirkenden Kraefte, liegt das Raetsel der Produktion» – La selvicoltura sulla base delle leggi di natura si concepisce nello spirito della ricerca di una armonizzazione delle forze naturali di produzione. In sintesi, in contrapposizione alla concezione dominante del tempo, egli sosteneva che il principio inderogabile della selvicoltura è la «conservazione perpetua dei fattori naturali della produzione».
Nel 1909 Heinrich Mayr, successore di Gayer alla cattedra di selvicoltura, con le teorie esposte nel trattato Waldbau auf naturgesetzlicher Grundlage – Selvicoltura sulla base delle leggi di natura – ha fornito un’ulteriore dimostrazione della necessità di innovare il pensiero forestale, determinando l’inizio di un sostanziale cambiamento di quella che fino ad allora era stata identificata come la scienza forestale tedesca.
Gayer e Mayr, nella patria dei teorici della massimizzazione del reddito fondiario, dell’applicazione dei turni finanziari, in definitiva, del sistema economico-finanziario, furono i teorici e gli interpreti più efficaci di una nuova selvicoltura. Gayer pone come principio fondamentale della selvicoltura la perpetuità e quindi la stabilità biologica del bosco e chiede sia la sostituzione del bosco puro di conifere e il ripristino del bosco misto sia l’adozione dei metodi della rinnovazione naturale e l’applicazione di forme di trattamento diverse e differenziate caso per caso. Mayr, con gli studi ecologici e fitogeografici, provoca un movimento innovatore nella selvicoltura e nei suoi metodi di studio.
Nel 1922 Alfred Möller, in aperta polemica con la gestione forestale che all’epoca si applicava su vasta scala in Germania, pubblicò un saggio in cui illustrava la teoria del Dauerwald – bosco permanente – che scatenò polemiche a non finire. Egli considerava appropriato e valido quanto teorizzato da Gayer e Wagner ed era assolutamente contrario al taglio raso e a tutte quelle forme di gestione che non tenevano conto della conservazione e dell’au­mento della fertilità del suolo e di tutto ciò che poteva intaccare quella che egli definiva la salute dell’organismo (7) bosco.
Secondo Möller le forme colturali non si possono definire, per il semplice motivo che non sono definibili. Le classificazioni servono sì, ma come schemi scolastici. La teoria del Dauerwald è stata oggetto di aspre polemiche tra i forestali centroeuropei e non. Ma ad essa va ascritto e riconosciuto il merito di aver segnato profondamente il pensiero forestale del secolo scorso, introducendo l’originale principio secondo il quale, nell’approccio colturale, è il bosco che indica al forestale quale debba essere la misura dell’intervento e non il contrario. Ovvero, le finalità dell’uomo non debbono prevalere sulle necessità del bosco; e, proprio per questo, esse non possono prescrivere e determinare le forme e le modalità colturali. Si ribaltano così tutti i dettami della dottrina forestale allora dominante.
L’analisi critica di tale teoria conduce pertanto alla implicita conclusione che l’idea guida del Dauerwald fornisce una indiretta ma esauriente risposta alle due obiezioni di fondo che ancor oggi alcune piccole frange di naturalisti e ambientalisti muovono ai forestali, cioè la visione antropocentrica e la volontà di dominare la natura, piegandola alle proprie esigenze. Una teoria rivoluzionaria e al tempo stesso lungimirante, dunque. E, appunto perciò, o difesa in modo passionale, o liquidata, come in effetti è stato, troppo affrettatamente. Forse Möller precorreva i tempi. E molti forestali non hanno capito che, con opportune puntualizzazioni e adeguamenti, il Dauerwald avrebbe potuto dare un incisivo contributo al progresso e allo sviluppo della scienza e della tecnica forestale.
Il bosco permanente, infatti, non è configurabile né con una forma di trattamento né con una norma da applicare, ma è un protocollo di intenti colturali, teso a conservare l’efficienza del bosco, assecondandone le necessità. «Basta mantenere su tutta la superficie la salute del bosco per aumentare il reddito annuale», scrive Möller. E in tal modo si pone in netta antitesi con i propugnatori della dottrina fondata sul taglio raso e rinnovazione artificiale.
Nel 1923 Christoff Wagner, autore della teorizzazione del Blandersaumschlag – taglio saltuario marginale, più noto come taglio marginale – sosteneva che il bosco puro, coetaneo, artificiale, che presenta indubbia facilità di gestione, non risponde ai princìpi naturalistici. E ancora: è inappropriato affermare che il bosco da preferire sia quello più vicino alla natura, perché la natura è imparziale sia con l’uomo che con il bosco. L’essenza di una vera selvicoltura sta nello sfruttare le leggi della natura e non nell’adeguarvisi passivamente. Sebbene il taglio marginale di Christoff Wagner nella pratica operativa non abbia mai avuto larga applicazione, ha però avuto ed ha grande risonanza (Patrone, 1979).
Nel 1946 in Svizzera Hans Leibundgut, con la enunciazione del Femelschlag, teorizzò una selvicoltura estensiva, con forme di taglio liberamente scelte, svincolata dal turno e dal diametro di recidibilità e volta all’ottenimento di assortimenti di qualità. Tale forma di coltiva­zione è conseguente alla volontà di razionaliz­zare i fenomeni che avvengono in natura. Le tecniche colturali scaturiscono dall’osser­va­zione ed esaltano i meccanismi naturali del bosco che, appunto perciò, sono economicamente vantaggiosi.
Nel 1960 egli annota: «Le fitocenosi forestali naturali sono intonate al loro ambiente climatico, edafico e biotico. Sarebbe peraltro in ogni caso errato volerle considerare come qualche cosa di statico. Il bosco vive di una vita costantemente mutevole. È vero che nel suo insieme esso dà l’idea del duraturo, dello stabile, ma è anche vero che nel suo interno si compiono mutamenti di lunga o di breve durata».
E più oltre: «La foresta vergine, nei climi temperati, è ormai limitata a pochi frammenti; in alcune regioni manca completamente. Quella rimasta, egli conclude, […] vive leggi sue proprie. Il complesso delle prestazioni che l’uomo chiede al bosco non la toccano. Le nostre finalità selvicolturali non possono essere raggiunte che con interventi colturali. La foresta vergine non può pertanto costituire un modello che vuole essere riprodotto, ma solo un faro, che ci può guidare».
E, di conseguenza, egli afferma (1982) che la selvicoltura deve saper utilizzare le risorse naturali, operanti a costo zero, per esaltare la produzione legnosa sia in massa che in valore. In quest’ottica rientrano l’azione di educazione dei popolamenti, quella della valorizzazione delle forze naturali e dell’utilizzo delle potenzialità individuali di produzione ecc. Tutto ciò com­porta l’immissione di energia e capitali e l’impie­go di personale qualificato.
Il Femelschlag è una forma colturale sofisticata, basata su interventi consapevoli e soft. Per di più, implica la continua ricerca di nuove tecniche che siano vantaggiose dal punto di vista biologico ed economico.
Quali conclusioni si possono trarre dall’orien­tamento della scuola svizzera? Principalmente due. La prima comporta l’individuazione del percorso colturale da applicare alla foresta. Pertanto, è necessario impiegare il metodo scientifico secondo i ben noti canoni dell’osser­vazione e della sperimentazione in pieno campo. E fin qui tutto procede secondo quanto è noto. La seconda è più significativa e rilevante. Leibundgut con i suoi studi, le sue argo­mentazioni e le sue esperienze sostiene in modo inequivocabile che la produzione di legno è l’unica invariante della selvicoltura. Anche, e soprattutto, della «selvicoltura naturalistica», le cui finalità quindi restano ben salde e non subiscono mutamenti sostanziali.
In breve, con il Femelschlag mutano le modalità di prelievo del legno ma non cambia la concezione di fondo. E non cambiano neppure gli ordinamenti, orientati in un modo o nell’altro a ottenere materia prima legno, nella fattispecie della migliore qualità possibile.
Nel 1950 i fautori del Dauerwald, tra i quali oltre a Dannecker si ricordano Wiebecke e Weck, promossero il «Gruppo di lavoro per una selvicoltura conforme alla natura» ANW – Arbeit­sgemeinschaft Naturgemäße Waldwirtschaft – di cui Dannecker è stato il primo presidente (Hockenjos, 1995).
Nel 1952 Josef Pockberger si fece promotore dell’opportunità di applicare tecniche colturali in grado di assecondare l’evoluzione del bosco verso forme più naturali. Se le foreste primitive possono fornire «… una indicazione sulla direzione da battere con una selvicoltura naturalistica, esse non potranno essere prese, come costituzione e strutturazione, per modelli da citare pedestremente, perché è insito in loro solo una finalità biologica, che è quella di conservare le specie che le costituiscono, mentre scopo della selvicoltura è quello di una produzione legnosa. Tuttavia esse vanno annoverate fra gli elementi costruttivi, in quanto campo di studio e prezioso oggetto di osservazione per la creazione di boschi su basi naturalistiche» (Hofmann, 1957a).
Nel 1958 Josef Nicolaus Köstler osserva che si deve tendere verso condizioni che meglio corrispondono alle leggi ecologiche e biologiche che governano la foresta: «… il bosco diseta­neo come tipo di struttura naturale resta un fenomeno di importanza tale che non è possibile prescinderne ogni qualvolta si prendano in esame i problemi economici fondamentali della selvicoltura». E conclude affermando che in selvicoltura chi deve prendere decisioni «… non sarà mai male consigliato se cercherà di vivere direttamente la vita del bosco e dell’albero. Una vigorosa vegetazione naturale è sempre fonte di bellezza e di gioia: ed in questo senso l’idea del bosco disetaneo ha una nota particolarmente umana».

6.2. I razionalisti e gli antirazionalisti in selvicoltura
Per essere super partes, come si conviene a ogni ricercatore, occorre esporre anche le opinioni di alcuni che in Italia e in Germania si dichiararono contrari al metodo del controllo, al bosco permanente e ai tagli marginali, deludendo i promotori che viceversa si attendevano ampi consensi. In questo scenario ritengo significativo riportare solo quanto espresso da Giuseppe Di Tella, Amerigo Hofmann e Karl Philipp.
Le nuove teorie del metodo del controllo di Gurnaud e Biolley e del bosco permanente di Alfred Möller suscitarono veementi diatribe in Francia e Germania. Ma anche in Italia si contestò sia il metodo del controllo sia il Dauerwald. In effetti, Gurnaud, Biolley, Möller e Wagner, in Germania, Francia e Italia erano considerati i rappresentanti dell’antirazionalismo. Essi si contrapponevano ai protagonisti del razionalismo scientifico che viceversa sostenevano l’applicazione di sistemi e metodi colturali coerenti con quanto previsto dall’establishement accademico, politico, amministrativo e tecnico.
Nel 1924 Giuseppe Di Tella, a proposito della teoria di Gurnaud e delle precisazioni di Biolley, così si esprime: «Mi sia perciò permesso di esprimere, a proposito del metodo di controllo, l’opinione che prima di tutto venga a ripetersi con esso l’errore di voler trattare tutte le foreste con unico metodo. Possiamo benissimo ammettere che l’esperienza proverà domani essere realmente la forma disetanea la più appropriata tecnicamente ed economicamente a boschi puri e misti di specie ombrivaghe, ma che la medesima forma si presti altrettanto bene anche a foreste formate da alberi di temperamento spiccatamente lucivago come ad esempio le pinete, i lariceti puri, ecc. – boschi, che sono, naturalmente, a tendenza coetanea – noi ancora fortemente dubitiamo».
«In quanto, poi, all’assestamento della foresta disetanea, noi siamo convinti che una buona via per arrivarvi gradatamente senza astruse ed assurde premesse teoriche, sia proprio quella che, nella vicina Francia, hanno ben tracciata quei lavori sperimentali di alcuni valorosi ispettori forestali (De Liocourt, Schaeffer, Gazin ed altri) assai favorevolmente accolti dal prof. Huffel come buona base di un metodo, che l’illustre insegnante della scuola di Nancy, va sperimentando con promettenti risultati in alcune abetaie dei Giura».
Nel 1926 Di Tella, sempre a proposito del bosco disetaneo, afferma: «… la selvicoltura va operando da lungo tempo con un sistema di taglio saltuario che, dal punto di vista sia colturale, sia economico, costituisce ormai, una tecnica già nelle sue grandi linee perfetta».
Nel 1926 Amerigo Hofmann si schierò contro il Dauerwald: «è chiaro che l’economia forestale non possa venir identificata colla conservazione del bosco e coll’estetica forestale, sebbene l’economia abbia il dovere di curare la conservazione e l’estetica. Ma in ogni economia il limite è dato dal tornaconto, non dai bisogni del bosco».
E ancora: «La base fondamentale dell’assestamento è la selvicoltura, della quale esso è l’espressione e la sintesi. La selvicoltura deve avere un indirizzo chiaro, bene definito e costante. Essa non si deve confondere con estetica, conservazione, osservazione di leggi biologiche ecc. Essa, come la cultura agraria, è scienza economica, s’impernia sui bisogni del Paese, sui mercati nazionali, su quello che si può produrre secondo le condizioni del suolo».
Al Congresso di Roma del 1926 Biolley, che pure si era presentato con un grande spiegamento di allievi e di fiancheggiatori, non riuscì a fare approvare una mozione sulla superiorità economica del bosco disetaneo, sulla generalizzazione del metodo del controllo e la messa al bando del tradizionale assestamento-regola. La mozione non passò soprattutto per l’opposizione ferma e cortese di Giuseppe Di Tella a cui si associarono Robert Hickel e Amerigo Hofmann (Patrone, 1979).
Nel 1932 Karl Philipp, come riporta Hockenjos (1993), si scagliava contro coloro che egli considerava gli antirazionalisti in selvicoltura e affermava con veemenza che la pratica non più controllata dalla ragione e l’entusiasmo sciocco per il bosco trattato a tagli successivi ad orlo – tagli marginali di Wagner –, per quello permanente e per le zone trattate a Femel – a tagli successivi e saltuari a gruppi – alla fine doveva rivelarsi come un chiaro imbroglio. Nella scienza forestale tedesca, egli soggiungeva, non si era mai raggiunto un livello così basso, una confusione e un imbarbarimento così grandi.
Qualsiasi commento è superfluo. Una riflessione però è d’obbligo: questa è la dimostrazione di quanto nella Mitteleuropa, malgrado l’affermazione dell’ecologia, la migliore conoscenza dei processi naturali e i cambiamenti sociali, il conservatorismo dell’establishment accademico, tecnico e amministrativo, divenuto pregiudizio ideologico e culturale, abbia influenzato e continui a influenzare l’attività forestale (Ciancio, 1997).

6.3. L’evoluzione della selvicoltura in Italia
Sul piano dei riferimenti alla letteratura europea si potrebbe continuare a lungo, ma si aggiungerebbe poco di più a quello che è già stato illustrato. Piuttosto credo sia utile tornare su quanto è emerso a casa nostra in merito alla cosiddetta selvicoltura naturalistica. Anche perché non tutti conoscono – lo si avverte chiaramente negli scritti sull’argomento, recenti e non – lo sviluppo della problematica e i numerosi interventi che si sono susseguiti nel tempo a chiarimento degli aspetti scientifici e tecnici relativi alla cosiddetta selvicoltura naturalistica. Qui ricordo solo i più significativi.
Nel 1914 Aldo Pavari affermava: «Non esiste foresta naturale che non sia disetanea; la foresta coetanea è creazione dell’uomo». Nel 1915 egli affrontava il problema da una diversa angolazione: «Solo da pochi anni i concetti della silvicoltura, su basi naturalistiche, – di cui i tedeschi vedono in Enrico Mayr il fondatore, mentre essa da secoli è esercitata in Francia e, perché no, anche in Italia, – hanno rivolto l’attenzione sulle foreste da dirado». Posizione questa che egli ha sempre sostenuto con grande coerenza.
Nel 1932 Pavari – dal 1922 Direttore dell’allora Stazione Sperimentale di Selvicoltura, oggi Centro di Ricerca per la Selvicoltura (CRA-SEL) –, che sin dal 1914 della selvicoltura naturalistica aveva fatto un punto fermo della sua attività di ricerca, allo scopo di dimostrare la validità del sistema a taglio saltuario, promosse nel bosco Collalto del Comune di Auronzo – fustaia mista di abete bianco e abete rosso – la costituzione di quattro vaste aree sperimentali per metterlo a confronto con il classico sistema cadorino. Il primo taglio di curazione fu eseguito nel 1934 col sistema di graduale adeguamento alla norma, mentre nelle aree di controllo il taglio fu eseguito, dal personale del Comune di Auronzo, secondo l’ordinario sistema cadorino (Ciancio, 2010).
Nel 1937 egli affermava: «La foresta disetanea è quella che meglio risponde ai criteri di una selvicoltura naturalistica…». E nel 1938: «Questa concezione naturalistica ed ecologica della selvicoltura si oppone, spesso in vivo contrasto, alla concezione finanziaria…». Nel 1948 così scriveva: «I recenti sviluppi della sperimentazione e della ricerca scientifica hanno messo in luce l’assoluta superiorità del bosco disetaneo (tipico quello da dirado) sul bosco coetaneo – specialmente di abete rosso – nei riguardi della resistenza a cause nemiche d’ordine climatico e parassitario, nella protezione, conservazione e fertilizzazione del suolo, nella capacità di assorbimento delle acque meteoriche; tutto ciò senza che il bosco da dirado presenti sensibili svantaggi nei riguardi della produzione legnosa».
E ancora: «… la realtà ci dimostra che col taglio saltuario le grandi distese di foreste resinose delle Alpi e specialmente di quelle Venete, si sono perpetuate attraverso i secoli. È dunque una eredità preziosa che non possiamo compromettere con avventati cambiamenti di sistemi colturali, poiché gli apparenti successi iniziali potrebbero tradursi, in un avvenire più o meno lontano, in conseguenze disastrose».
Nel 1957 Alberto Hofmann osserva che: «… una selvicoltura su basi naturalistiche è l’unica che possa rispondere alle esigenze complesse delle foreste italiane, soprattutto sotto il profilo del loro valore idrogeologico, prima ancora di quello economico, che tuttavia trova la sua giusta esaltazione, giacché, come l’esperienza delle monocolture ha dimostrato, gli alti redditi iniziali sono effimeri ed ottenibili solo col sacrificio della fertilità del terreno, di cui il bosco è il primo ed il più valido custode». E ancora: «Il filo vitale, cui è appesa la selvicoltura naturalistica, è la rinnovazione spontanea, la quale appare legata a una buona cura della provvigione adulta. In sostanza far nascere e affermare un rigoglioso novellame non è che un abile giuoco di dosatura della luce, che richiede pazienza ed amore per il bosco e che rifugge dagli interventi grossolani».
Nel 1977 Giovanni Bernetti a proposito della selvicoltura naturalistica afferma: «… nella letteratura forestale degli ultimi sessanta anni questa espressione appare più di frequente impiegata per indicare tutto quanto mira ad ottenere produzione legnosa mediante l’impiego di specie spontanee del luogo e quindi della rinnovazione naturale, nonché mantenendo strutture e composizioni miste e complesse che consentano al forestale di sfruttare al massimo le evoluzioni spontanee del bosco a fini economici».
E a seguire: «Un’altra concezione più larga della selvicoltura naturalistica, comprenderebbe tutte quelle pratiche di produzione forestale applicate sulla base dello studio delle scienze naturali: compresa l’introduzione di specie esotiche ove segua ad uno studio accurato degli ambienti di origine e di destinazione nonché della biologia e della genetica della specie. In questo modo è naturalistica qualsiasi teoria o realizzazione tecnica che non sia rozzamente empirica». In estrema sintesi, egli evidenzia il ruolo decisivo degli ordinamenti produttivi e sostiene che questi si dovrebbero classificare «… in base a diversi gradi di regolarità».
Nel 1986 Bernardo Hellrigl sottolinea che «le strutture […] ‘irregolari’ sono spesso ecologicamente e funzionalmente valide, e pertanto non sempre sussiste una motivazione razionale per convertirle […] a una delle forme selvicolturali classiche».
Si potrebbe continuare lungamente con le citazioni. In merito alla cosiddetta selvicoltura naturalistica, invece, riporto alcune indicazioni sul diverso sviluppo del pensiero di Aldo Pavari da parte di due suoi illustri allievi: Alessandro De Philippis e Lucio Susmel.
Alessandro De Philippis (1948; 1950; 1967; 1970; 1972; 1986) riconosce sì la selvicoltura a indirizzo naturalistico, ma preferisce teorizzare la selvicoltura ecologica o ecosistematica – ripeto ecosistematica – rifacendosi a quanto illustrato da Aldo Pavari (1932) nei «Lineamenti di selvicoltura comparata su basi ecologiche», che egli considerava a distanza di 35 anni, cioè nel 1967, ancora attuale. Egli rileva che: «L’indirizzo naturalistico della selvicoltura impone di subordinare la natura e l’entità degli interventi a un’esatta valutazione dei loro effetti, al fine di alterare il meno possibile lo stato di equilibrio bioecologico dei singoli ecosistemi forestali, oppure di ripristinarlo quando esso sia stato profondamente modificato o distrutto».
E in merito alla gestione (1950) egli afferma: «Ogni piano di assestamento dovrebbe essere anzitutto un piano di tagli e non dovrebbe esaurirsi, come spesso avviene, nel calcolo della ripresa, limitandosi a poche e vaghe indicazioni sulla maniera, di tempo e di luogo, più appropriata per utilizzare tale ripresa. Troppo spesso vengono trascurati l’esame della struttura del soprassuolo e la ricerca delle condizioni di rinnovazione indispensabili per stabilire con fondatezza il trattamento da adottare». E ancora: «Comunque l’applicazione del trattamento prescelto dovrà essere fatta con molta arte (quando c’è!) e con poche regole, ma queste poche sono necessarie e devono essere applicabili con criteri scarsamente soggettivi. Senza di ciò, qualsiasi piano si riduce, in sostanza, ad una dispendiosa ricognizione topografica e stereometrica del soprassuolo, di molto dubbia utilità».
Nel 1972 precisa il suo pensiero e annota che la tendenza dell’applicazione alla selvicoltura delle scienze della natura aveva dato «… origine alla moderna selvicoltura su basi naturalistiche, per la quale il bosco non è un semplice insieme di fusti legnosi, ma una complessa e viva entità biologica, in equilibrio dinamico col suo ambiente fisico, dotata di un limitato grado di tolleranza per gli interventi esterni e perciò suscettibile solo di usi che ne assicurino anche la rinnovazione e la continuità nel tempo».
Nel 1986 scrive: «Si parla molto, anche troppo, della necessità di conservare i boschi a beneficio della società futura, ma poco o niente si fa perché la conservazione venga conseguita congiuntamente alla fruizione attuale degli stessi benefici. Sbaglia chi pensa alla sola produzione legnosa, ma sbaglia anche chi pensa soltanto alle funzioni ambientali, dimenticando che l’una e le altre sono strettamente interdipendenti e legate al grado di efficienza funzionale del bosco. Sono le cure colturali (o trattamento in senso generale) che possono portare e mantenere l’ecosistema bosco al livello di efficienza richiesto dall’uso che ne vogliamo fare. […] non si tutela l’ambiente se non si tutelano i boschi, ma […] non si tutelano i boschi se ci si rifiuta di considerarli e di trattarli anche come una risorsa naturale rinnovabile, compito questo che spetta alla selvicoltura su basi naturalistiche, oggi definibili ecosistemiche».
Una linea di pensiero quella di Alessandro De Philippis che, come meglio sarà specificato in seguito, propende chiaramente per la selvicoltura su basi ecologiche e per il bosco coetaneo. Infatti, egli (1970) ritiene che il bosco disetaneo sia un ideale difficilmente raggiungibile perché «… rischierà, il più delle volte, di restare accantonato nel limbo della teoria».
Lucio Susmel (1951; 1955; 1956; 1957; 1961; 1962; 1964; 1970; 1979; 1980; 1986a; 1986b; 1988; 1993) con la sua vasta e poderosa opera ha innovato e sviluppato magistralmente il pensiero di Aldo Pavari, prediligendo, invece, il bosco misto disetaneo a rinnovazione naturale. Egli (1964) sostiene che «La selvicoltura naturalistica ha il suo credo fondamentale nella necessità di assecondare l’opera della Natura e nella pericolosità di contrariarne eccessivamente le leggi con cui governa la vita del bosco».
Nel 1980 annota: «… la selvicoltura natu­ralistica ritiene che più alte probabilità di garantire la stabilità delle foreste coltivate con minor dispendio energetico, economico ed ergonomico si abbiano invece con strutture e funzionalità simili a quelle dei popolamenti naturali degli stessi tipi, la vita dei quali in assetti immutati continua da parecchie migliaia di anni. Nei climi temperati le foreste naturali hanno, come è risaputo, forme variamente disetanee. Nell’accezione modernamente accolta, la selvicoltura naturalistica tende a realizzare nel modo più perfetto possibile lo equilibrio tra il bosco e l’ambiente, nello assunto del tutto logico che tale equilibrio, valorizzando in massimo grado le risorse ecologiche della stazione, assicuri nello stesso tempo la stabilità biologica del bosco e con essa la più piena funzionalità».
Più oltre osserva: «La linea naturalistica si volge precisamente all’imitazione delle foreste naturali dei diversi tipi floristici cercando di realizzare estesamente e con la massima capillarità possibile – mete ideali che sa di non poter mai compiutamente raggiungere – dei modelli colturali provvisti, come i modelli naturali, dei caratteri essenziali della omeostasi. Viene così implicitamente ammessa la relazione di causa-effetto fra disetaneità (diversità) e stabilità, in relazione verificabile nelle foreste che possiedono una struttura ecosistemica (livelli trofici) di buona funzionalità grazie a un popolamento arboreo con struttura cronologica disetanea equilibrata o abbastanza equilibrata: quindi anzitutto nelle foreste vergini, ma anche foreste disetanee coltivate».
E più oltre così continua: «La selvicoltura naturalistica mira anch’essa alla produzione di sostanza organica utile all’uomo, ma – con un’apertura più olistica – considera importante anche l’adempimento delle altre funzioni di indole sociale riconosciute al bosco (tutelare, igienica, ricreativa, culturale, paesaggistica)».
Il botanico naturalista Valerio Giacomini (1964) propugna la necessità di un’armonizzazione tra le leggi dell’uomo (leggi economiche) e quelle naturali in modo però da non alterare pericolosamente gli equilibri originari. Anche perché il tanto auspicato ritorno alla natura, egli scrive, qui da noi non sarebbe del resto realizzabile.
Fabio Clauser (1981) molto opportunamente osserva che: «la politica forestale e la politica ambientale sono […] due politiche settoriali che […] ci accorgiamo essere la stessa cosa; nel senso che qualsiasi politica forestale di intervento o di non intervento è destinata a fallire assieme a tutte le nostre attese e alle nostre ideologie, in assenza di un’adeguata politica ambientale. La quale, a sua volta, senza bisogno di studi analitici preliminari, deve essere necessariamente di intervento, per il semplice fatto che è stato il non intervento a portare allo sfascio attuale dell’ambiente».
Il botanico Franco Pedrotti (1982) sottolinea: «… i protezionisti hanno insegnato che l’uomo dovrebbe prelevare soltanto quella parte delle risorse naturali che corrisponde alla rendita del patrimonio o capitale natura».
Nel 1994 e nel 1996 Ciancio e Nocentini esaminano i presupposti del metodo del controllo e analizzano la possibilità, pur con sostanziali cambiamenti, di una sua eventuale possibile applicazione. In particolare, essi formulano una proposta basata su un progetto aperto: il mantenimento, il miglioramento e la valorizzazione della complessità del sistema biologico bosco che per l’applicazione si avvale della lettura del bosco e della sapienza forestale.
E sottolineano che «L’abbandono di anacronistici quanto inutili schematismi – veri e propri vincoli che intralciano l’avanzamento delle scienze forestali – e la rivalutazione del momento colturale possono considerarsi gli elementi fondanti del progetto aperto. Non è difficile prevedere che in un prossimo futuro prevarranno sempre più forme colturali estremamente raffinate, sofisticate e comunque tese alla valorizzazione anche degli aspetti estetici e culturali dell’entità bosco, nuovo soggetto di diritti».
Di più: «Saper leggere la biocenosi, saper comprendere la sintomatologia che essa manifesta, costituisce un elemento che porta a un rapporto uomo-bosco ottimale: il sistema bosco si riconosce nell’uomo e l’uomo si riconosce nella natura. Il progetto aperto nasce e si sviluppa nella consapevolezza che quello che non ha valore per la sopravvivenza dell’albero può averne per il collettivo, il bosco, il sistema, l’uomo. E, paradossalmente, così facendo, a ben pensarci, si esaltano anche gli aspetti economici connessi al bosco».
Nel 1996 Fabio Clauser afferma: «Esistono ambiguità ed incertezze interpretative che rendono difficile una precisa definizione della selvicoltura naturalistica e che, a volte, portano ad evidenti contraddizioni ed insuccessi della sua applicazione. Questi inconvenienti si possono forse evitare se tale tecnica di coltivazione dei boschi viene intesa come applicazione di fondamentali leggi di natura». E poi osserva: «Ciancio (1981) sostiene che si tratta di una espressione impropria e che meglio sarebbe parlare di selvicoltura su basi naturalistiche; recentemente (1996) ne dà una definizione concettuale più ampia integrandone il significato in quello di selvicoltura sistemica. A tale conclusione mi pare di poter aderire senza riserve».
In sintesi, si può affermare che l’idea guida della selvicoltura naturalistica consiste nel beneficiare della conoscenza, acquisita in altri settori della scienza, per meglio definire i sistemi e i metodi di coltivazione e di gestione del bosco. Ciononostante essa resta sempre e comunque saldamente ancorata alla teoria del realismo economico. Mutano i sistemi colturali e gli ordinamenti produttivi, ma gli aspetti finanziari sono sempre in primo piano.

7. Selvicoltura su basi ecologiche e selvicoltura naturalistica
Desidero ora analizzare brevemente il pensiero di due Maestri che consideravano l’ecologia come il fondamento della selvicoltura: Alfred Dengler e Alessandro De Philippis.
Alfred Dengler (1930), in contrapposto al Dauerwald, propugna la selvicoltura su basi ecologiche. Il problema su cui egli si sofferma riguarda l’ordinamento che in ogni caso non deve raggiungere quel limite oltre il quale ci si allontana dalla natura. In sintesi, egli con le sue teorie ha provocato una vera e propria rivoluzione con importanti risvolti scientifici. Ha determinato il passaggio dal razionalismo teorico matematico imperante in selvicoltura al razionalismo bioecologico. Un salto di qualità che ha provocato anche sul piano tecnico e pratico operativo un rilevante cambiamento. Salto di qualità e cambiamento che si riscontrano anche in Aldo Pavari (1932) nei suoi «Lineamenti di selvicoltura comparata su basi ecologiche».
Alessandro De Philippis (1967), sostenitore anch’egli della selvicoltura su basi ecologiche, afferma che «Gli interventi colturali modificano, inevitabilmente ma in misura più o meno rilevante, lo stato del soprassuolo, per quanto attiene alla sua composizione floristica, alla stratificazione, alla struttura, alla variabilità fenotipica delle specie arboree; queste modifiche si riflettono sulle condizioni interne di clima e di suolo e perciò interferiscono, direttamente e indirettamente, in quel complesso gioco di azioni e reazioni da cui dipendono l’equilibrio biologico e la produttività del bosco. Orbene, il problema di limite [il corsivo è mio] sta nello stabilire quale sia il grado di interferenza da considerare tollerabile per una selvicoltura che voglia restare naturalistica».
Dengler e De Philippis, quest’ultimo facendo proprie anche le posizioni di Pavari, si pongono il medesimo problema: la ricerca di un limite che, per rispettare le leggi di natura, non può essere superato. La soluzione del problema connesso all’applicazione della selvicoltura su basi ecologiche consiste nell’individuare e definire tale limite in modo da non alterare la funzionalità della biocenosi.
Dengler, in merito alle affermazioni di Wagner – il bosco da dirado è un fantasma –, esprime il parere che esse sono troppo drastiche. Tuttavia, sempre per Dengler, il bosco disetaneo è e resta una forma di trattamento artificialissima perché è legata a continui interventi dell’uomo indirizzati a forzare la tendenza della natura, a livellare in pochi anni le dimensioni degli alberi (Patrone, 1979). Invece, per Köstler (1958) il bosco disetaneo è raro, ma proprio per questo egli afferma che «se non ci fosse altro argomento in favore di questo tipo di struttura, ve ne sarebbe sempre uno fondamentale: che l’eccezione va conservata e protetta».
In passato, il taglio saltuario, o a dirado, o a scelta non era considerato un vero e proprio sistema colturale, ma un taglio mercantile che quindi nulla aveva a che fare con specifiche finalità colturali. Da qui l’attento studio della fustaia disetanea e la necessità di ricercare la norma, ovvero la costruzione di quella che è divenuta nel tempo, per dirla con Biolley, appunto, l’«eresia delle curve». Ma, invero, la norma doveva ricercare e definire quel limite da non oltrepassare per non intaccare la produttività del bosco e al tempo stesso conseguire il tornaconto dei tagli di curazione, cioè i due elementi discriminanti della cosiddetta selvicoltura naturalistica.
Quanto sopra evidenzia incontrovertibilmente che la fustaia disetanea per pedali è una forma colturale utopica, ideale, espressione dell’azione antropica al fine di conseguire un alto reddito a brevi intervalli rispetto ai normali tempi forestali. Nel mentre nei «sacri testi» e in letteratura è considerata il prototipo del trat­tamento della cosiddetta selvicoltura naturalistica. Ma, il punto chiarificatore consiste come sempre nel fatto che in selvicoltura il tornaconto finanziario è prevalente rispetto al naturale.
Domando: cosa c’è di naturale nel trattamento a taglio saltuario identificato con la norma? Quali sono le forme assimilabili alla cosiddetta selvicoltura naturalistica che hanno stabilito un limite attraverso il quale non ci si scosta dalla natura? Quali sono i parametri da ricercare e scoprire per accertare tale limite? E se sì, qual è il limite da non superare? Possono servire a tale scopo le costruzioni teorico matematiche come, per esempio, le tavole alsometriche per i boschi coetanei? Si può pianificare e operare pensando di ricercare e conseguire il «bosco normale»? E se sì, le suddette forme colturali cosa hanno in comune? In tal caso quale ruolo svolge il naturale?
Si tratta di domande semplici alle quali o non si danno risposte o si danno risposte scontate. Tutti i forestali, o quasi tutti, diranno: ma sì, basta utilizzare l’incremento e non superare questa soglia. Questo lo sapevano sia Dengler, sia Pavari, sia De Philippis. Come mai allora essi si ponevano e ponevano la questione del limite? La risposta è insita in un’altra domanda. È sufficiente stimare – infatti di una stima si parla, per di più aleatoria perché, come già affermato, nei Sistemi Complessi la predizione ha un significato debole – l’incremento per avere la certezza di non provocare gravi ripercussioni sulla funzionalità del sistema biologico bosco? È sufficiente in condizioni di tempo mutevole come l’attuale fare riferimenti ai canoni del passato? È meglio agire sulla base di improbabili stime o non è più utile e opportuno il monitoraggio del sistema bosco e a seguito di ciò operare consapevolmente?
A proposito del metodo del controllo Patrone (1979) così si esprime: «L’asse­stamento, in sintesi, subisce un sostanziale rovesciamento. Non è più per Gurnaud e Biolley un bilancio preventivo che vincola e programma la selvicoltura ma piuttosto un bilancio consuntivo che ne verifica il risultato. All’assestamento-regola si contrappone l’assestamento-inchiesta, cioè il metodo del controllo. E la teoria della fustaia da dirado colturale e quella del metodo di controllo vengono così a formare un tutto unico». In breve: all’assestamento incentrato sulla predetermina­zione della ripresa, si sostituiva l’assestamento basato sulla constatazione della ripresa. Dunque, i «controllisti», cioè i sostenitori del metodo del controllo, invertivano i termini del problema così come quasi sempre esso è impostato in letteratura.
Mi astengo dal dilungarmi oltre. Una riflessione però è d’obbligo: la teoria della selvicoltura sistemica è antitetica alla cosiddetta selvicoltura naturalistica e forme colturali affini. Sul piano culturale essa tiene conto di quella vasta rete di conoscenze che fa capo ai suddetti Maestri e che indubbiamente costituisce un patrimonio inalienabile del settore forestale. Tuttavia, la teoria della selvicoltura sistemica innova profondamente tale rete di conoscenze tanto da rappresentare, per dirla con Thomas Kuhn, una vera e propria rivoluzione scientifica.

 8. La selvicoltura tra empirismo, arte e scienza 

Come prima esposto, tra i forestali c’è confusione su quello che in selvicoltura si debba intendere per scienza, tecnica e pratica operativa. Ma non c’è da meravigliarsi, si tratta di una questione antica che ha provocato e continua a provocare dirompenti quanto improprie discussioni che a un esame oggettivo della problematica non hanno motivo di sussistere. Confusione che risale al periodo prescolastico italiano se già nel 1865 il Di Bérenger, a seguito della pubblicazione di un Manuale teorico-pratico d’arte forestale (8) del quale egli criticava duramente la mancanza di nozioni scientifiche, scrive: «… che l’arte diversifica affatto dalla scienza delle foreste…».
E a seguire: «L’Alsocomia, ossia la generalità ed il complesso dell’economia forestale, può essere considerata sotto tre differenti aspetti: 1° come mestiere, in quanto si occupa del lavoro manuale; 2° come arte, in quanto esercita nella coltura degli alberi un regolato empirismo; 3° come scienza, in quanto non si determina ad operazione veruna, cui non sia condotta dai principii tutti della retta ragione e dall’insegnamento delle scienze affini. Come mestiere è la somma delle pratiche esercitate dal boscaiuolo, dal piantatore, dal resinatore, dal fluitatore, dallo squadratore, dal segantino, dal carbonaio, dal peciaiuolo, dal mannaiuolo, dal pinaiuolo, dallo scorzatore, dal guardaboschi ecc.; pratiche che ognuno conosce abbastanza per poter comprendere in che vada a consistere un tal mestiere; ma come scienza ed arte non la è più così. Sono elleno in fatto di tal natura, che è molto più agevole confonderle, che non rettamente distinguerle, sendo che l’una e l’altra non appartengono bene spesso ad esercizi di mente differenti tra loro; ma bensì ad uno stesso identico esercizio, considerato per altro sotto un aspetto diverso, cioè a dire, o nel modo, o nella prevalenza d’azione competente all’una piuttosto che all’altra».
«Ciò posto, sino a che al selvicultore non servono di guida, che le idee ricevute dagli altri, o formate da sè per l’impressione dei fatti offertigli o dal caso, o dalle osservazioni ed esperienze sue proprie, ed egli segue materialmente le regole prescritte, o da sè dedotte in singoli casi: egli non s’aggira tutto al più, che sul campo dell’arte. Se invece procede più oltre; se va speculando intorno alle possibili origini dei fatti che osserva, ai loro progressi, alle relazioni che hanno tra loro, e con altri fatti d’indole più o meno diversa; se ne va investigando l’essenza ed il nesso causale: è allora che egli si trova nel campo veramente sicuro ed utile della scienza. Il selvicultore, che per governare il suo bosco cammina unicamente sulle traccie di ciò che ha veduto e notato egli solo, senza conoscere altra ragione del suo procedere, è un empirico, che portato in luoghi, climi e circostanze diverse da quelle in cui operava da prima, smarrisce la strada, nè può raggiungere la meta desiderata, che dopo molte prove, assaggi ed esperimenti, con scialacquo dannoso di tempo e di spese: quando che, se avesse a lume e sussidio della propria ragione le dottrine della fisiologia vegetale, della chimica agraria, della fisica, della geonomia, della tecnologia e delle matematiche, egli avrebbe davanti a sè manifesti i passi, che la scienza mostrerebbe sicuri all’esercizio dell’arte sua». Una riflessione: a distanza di 145 anni poco è cambiato. Come allora la confusione regna sovrana.
La selvicoltura è scienza e arte, dunque. Scienza perché attraverso postulati e teorie porta ad una migliore comprensione e conoscenza dei fenomeni biologici e dei processi interattivi che intervengono nel bosco e fra questo e l’ambiente, permettendo di applicare forme colturali in grado di assicurare nel tempo e nello spazio la continuità e l’uso oculato del bosco, cioè nel rispetto dei suoi diritti. Arte perché, attraverso tutta una serie di accorgimenti, frutto di osservazione, esperienza e meditazione ma anche e soprattutto di sensibilità e abilità, permette di conservare o ottenere con il minimo dispendio di energia il massimo di funzionalità ed efficienza.

9. La cosiddetta selvicoltura naturalistica, la ricerca scientifica e la cultura del bosco
Pur essendo convinto che le idee nuove in campo forestale si affermano con i tempi forestali, lunghi, a volte lunghissimi, dai recenti sette scritti emerge quello che si può considerare un vero e proprio paradosso: la volontà di sostenere tesi già note da oltre un secolo nel vano tentativo di presentarle attraverso perifrasi come novità e, per di più, allo scopo di contrastare una nuova teoria, nella fattispecie la selvicoltura sistemica. Un metodo che dal punto di vista scientifico è improponibile.
La cosiddetta selvicoltura naturalistica, si sa, è un sistema colturale che ha le radici nella tradizione e nella cultura delle popolazioni locali. È stata codificata in sistema alla fine del XIX secolo come reazione all’eccessiva artificialità della selvicoltura finanziaria tipica del centro Europa. Per lungo tempo è stata contestata sia dai tecnici sia dagli amministratori perché erroneamente assimilata a un tipo di selvicoltura basata su un metodo di raccolta di tipo commerciale. Viceversa, nel tempo si è affermata come un sistema colturale rispettoso della continuità della produzione.
Dalla prima indicazione relativa a questa nuova forma colturale sono passati a un dipresso 125 anni, ma nei recenti scritti affiora un supino adeguamento a sostegno di tale forma colturale. In breve, sembra quasi di capire, come si vedrà meglio in seguito, che si voglia aggiungere al sostantivo selvicoltura una nutrita serie di perifrasi che sin dalla fine del XIX secolo hanno determinato aspre e spesso devastanti contrapposizioni. L’esempio classico è la selvicoltura conforme alla natura di Alfred Möller, che con il termine conforme ha provocato durissime controversie in ambito scientifico e tecnico, oltre che in quello amministrativo e politico.
Una parte del mondo forestale pare voglia restare legata, peraltro con grande supponenza, a quel tal fenomeno che a suo tempo, e sottolineo a suo tempo, ha svolto un ruolo decisivo per l’affermazione della selvicoltura come scienza e come tecnica, determinando il superamento della fase dell’empirismo che per tanto tempo aveva dominato l’attività colturale.
Difatti, agli inizi del XX secolo sull’onda delle nuove conoscenze in biologia e in economia, la selvicoltura e l’assestamento forestale assunsero una nuova dimensione: si passò, appunto, dalla concezione empirica a quella scientifica e tecnica. I princìpi della nascente ecologia insieme a quelli della fitogeografia comparata, della fitosociologia e dell’analogia climatica e pedologica furono assunti come base di studio del trattamento e della gestione del bosco.
La ricerca si orientò verso la sperimentazione in pieno campo. «L’approccio atomistico, cioè della scomposizione in parti e comparti, ha permesso alla ricerca forestale di ottenere risultati di notevole efficacia sul piano tecnico. Ma, al tempo stesso, ha incapsulato il sapere forestale; ha frenato l’evoluzione del pensiero; ha compresso la ricerca teorica. Ma c’è di più. Ha affievolito l’interesse per la cultura del bosco» (Ciancio, 1994a).
Solo alcuni forestali presero atto di questa nuova realtà e cercarono di sviluppare un progetto di ricerca alternativo. Ma le conoscenze ancora non consentivano di effettuare quel salto di qualità necessario per riorientare il pensiero forestale. I tempi non erano ancora maturi. Successivamente, l’affermazione della visione olistica e del pensiero ecologico ha permesso di guardare al bosco non più come un agglomerato di alberi ma come un tutto: ovvero un sistema in cui ciascuna componente – biotica e abiotica – ha un preciso significato e svolge un determinato ruolo.
Faccio però notare che 125 anni nella ricerca scientifica sono anni luce. Su tale aspetto forse non guasterebbe una riflessione da parte di tutti i forestali: studiosi, docenti, ricercatori, amministratori e tecnici. Se le cose stanno così, se dopo 125 anni dalla prima enunciazione si continua a discettare sulla cosiddetta selvicoltura naturalistica e sulle perifrasi a essa assimilabili, allora a nulla vale lamentarsi se altre categorie professionali occupano lo spazio tipico dei forestali.

10. L’aggettivazione della selvicoltura
Sull’opportunità o meno di aggettivare la selvicoltura, due sono le correnti di pensiero. La prima sostiene che non si deve aggettivare la selvicoltura. La selvicoltura è una disciplina e quindi non vi è alcuna necessità di aggiungere al sostantivo aggettivi di alcun genere. La seconda, invece, ritiene che la selvicoltura debba essere aggettivata perché vari sono i modi di intenderla e diverse sono le modalità applicative.
La prevalenza è certamente di quest’ultima corrente di pensiero, come è dimostrato in modo inequivocabile dall’aggettivazione impiegata nel corso del tempo. Si è scritto di selvicoltura naturale, economica, protettiva, ecologica, convenzionale, tradizionale, intensiva, accelerata, industriale, agronomica, artificiale ecc. L’argomento indubbiamente è interessante e, malgrado le oggettive difficoltà, è utile introdurlo nel dibattito. Il confronto di idee è stimolante poiché da esso è possibile chiarire alcuni aspetti scientifici, tecnici, etici e culturali. Ed è quanto cercherò di fare.
La cosiddetta selvicoltura naturalistica e la selvicoltura sistemica sono forme colturali molto diverse l’una dall’altra. Nella fattispecie ambedue sono accomunate solo e soltanto – e non potrebbe essere altrimenti – dall’aggettivazione: da un lato «naturalistica» e dall’altro «sistemica».
Appartengo alla categoria di coloro che non ritengono utile aggettivare la selvicoltura. Sono stato obbligato ad aggiungere sistemica al sostantivo selvicoltura poiché bisognava differenziare in modo netto questa forma colturale – viste anche le profonde diversità di ordine teorico, scientifico, tecnico e pratico operativo – da una serie multiforme di espressioni teorizzate e applicate da oltre 125 anni. E appunto perciò, tutte rientrabili, per dirla con De Philippis (1967) nella «… selvicoltura classica, come per riguardo verso una nobile signora decaduta».
Oltre alle aggettivazioni prima elencate, della cosiddetta selvicoltura naturalistica, così come si desume dalla letteratura a partire dalla fine del XIX secolo e fino a quella più vicina del XX e del XXI secolo, molte sono le varianti a essa riconducibili. Si ricordano le più usate con scambi di perifrasi anche nello stesso articolo: selvicoltura sulla base delle leggi di natura; selvicoltura conforme alla natura; selvicoltura in armonia con la natura; selvicoltura vicina alla natura; selvicoltura prossima alla natura; selvicoltura su basi naturali; selvicoltura su basi naturalistiche ecc.
Negli ultimi tempi si avverte un ulteriore cambiamento e, diversamente dal passato, almeno così pare di capire, si parla di approccio naturalistico, invece di selvicoltura vicina alla natura e di selvicoltura prossima alla natura (Wolynski, 1993; 1995; 1998; 2009). Oppure di selvicoltura a indirizzo naturalistico (Maz­zucchi, 2009) e di selvicoltura senza etichette (Mazzucchi, 1997), invece di selvicoltura naturalistica. Con il che non solo non si eliminano le particolarità e le diversità connesse all’aggettivazione e all’uso di perifrasi, ma si finisce con il complicare ancor di più la cono­scenza dei postulati della forma colturale, indebolendo ulteriormente le teorie e i presup­posti che stanno alla base della cosiddetta selvicoltura naturalistica.
Ma, a parte ogni altra considerazione, fra queste locuzioni qual è, se c’è, la cosiddetta selvicoltura naturalistica? E come la si identifica? Quali sono gli attributi teorici e tecnici che caratterizzano ciascuna delle forme colturali identificate con tali espressioni? In che cosa si differenziano l’una dall’altra? O si tratta solo e solo di perifrasi? Non mi pare che nei sette scritti si sia posta attenzione a questo aspetto. Difatti, a tal proposito, non ci sono elementi distintivi chiaramente percepibili.
C’è da sottolineare quanto opportunamente segnalato da Nocentini (2009): nessuno dei vari sostenitori di tali forme colturali si è mai preoccupato di chiarire il significato di queste definizioni e quali siano, se ci sono, le caratteristiche che eventualmente le differenziano. Per dirla con Paolo Mori (2001), «Si fa presto a dire selvicoltura naturalistica…».
Agli A.A. dei sette articoli vorrei segnalare il metodo adottato da Fabio Clauser (1996) che in un interessante contributo, viceversa, chiarisce sin dall’inizio cosa egli intenda per selvicoltura naturalistica, accettando e facendo propria la definizione di Heinrich Mayr (1909), appunto, «Selvicoltura sulla base delle leggi di natura». Si può essere d’accordo o no, ma nella fattispecie una cosa certa c’è: la chiarezza dell’impostazione concettuale del problema.

10.1. Le perifrasi e il background dei selvicoltori
Mi sono sempre chiesto – e forse sarebbe opportuno che chi sostiene la selvicoltura così diversamente qualificata e identificata si occupasse di chiarire questi aspetti – quali potevano essere le distinzioni scientifiche tra questa miriade di definizioni. Difficile e complicato trovarne qualcuna basata su una teoria ben definita. Epperò, a parer mio, la risposta è semplice: si può supporre che queste aggettivazioni o perifrasi derivino dal background di ciascun studioso, o ricercatore, o tecnico. Ognuno di loro è portato a codificare piccole modifiche tecniche rispetto alle proprie conoscenze scolastiche sulla base di particolari esperienze acquisite in campo.
Per dare senso e valore al dibattito, parrebbe opportuno cercare di filtrare le varie inter­pretazioni, quasi sempre parziali e riduttive, unificando tale caterva di espressioni in una definizione avente la caratteristica di essere chiaramente e univocamente identificabile sia sul piano scientifico sia su quello tecnico. Purtroppo così non è stato, e così non è. Ognuno resta legato al suo particolare modo di interpretare le tecniche da applicare nell’operatività in campo, ritenendo di essere a un dipresso il depositario di tutte le conoscenze inerenti alla selvicoltura.
In sintesi, allo stato attuale allorché si parla della cosiddetta selvicoltura naturalistica, viste le molteplici perifrasi, non si riesce a comprendere quali siano le basi scientifiche riconducibili in modo incontrovertibile a tale forma colturale in sé e, a maggior ragione, a quelle forme colturali a essa connesse e quindi diversamente definite. Se diverse sono le defi­nizioni, allora diversi dovrebbero essere i postulati, le teorie e le tecniche applicative. Ma invero anche in questo caso purtroppo così non è stato, e così non è.
Nella letteratura si riscontra un dato ricondu­cibile a un insieme di tecniche che variano per più o meno piccoli accorgimenti che però, nella realtà non modificano in modo significativo né gli schemi scolastici, né tantomeno l’attività colturale. Fatti salvi alcuni rari casi a carattere sperimentale, posso affermare che nella mia lunga attività non ho mai visto un forestale operare in bosco sulla scorta di modelli teorico matematici o di schemi tecnici precedentemente definiti.
Il forestale nell’esercizio della sua professione, che prevede sia la funzione di tutore e difensore della foresta sia quella di parsimonioso raccoglitore del prodotto che questa è in grado di fornire, nonché quella di architetto di un’opera alla cui completa realizzazione egli, in genere, non sopravvive, è sempre dibattuto e costretto a scelte fra schemi rigidi che per intima convinzione non vorrebbe dover compiere. Infatti, non riesco a immaginare neppure per un istante come si possano effettuare le martellate percorrendo i sentieri, a parer mio impercorribili perché irti di ostacoli insuperabili, delle tavole alsometriche, del «bosco normale» o di schemi definiti per scopi puramente didattici o proposti nei piani di assestamento elaborati secondo gli schemi previsti nei «sacri testi».
Ripeto, forse bisognerebbe domandarsi se la selvicoltura con l’aggiunta dell’aggettivo naturalistica in definitiva si debba considerare una scienza, una tecnica o, per dirla alla Di Bérenger, un mestiere. Invece, dagli articoli in questione emergono due diverse opinioni che così si possono riassumere: la prima si sofferma su una forma colturale caratterizzata da un insieme di tecniche che variano in relazione alle diverse interpretazioni; la seconda sostiene l’utilità di alcuni schemi tecnici elaborati a fini scolastici che, principalmente, sono utili ai professionisti per non essere sconfessati nel corso dell’approvazione dagli Enti preposti all’esame dei progetti di martellata o dei piani di asse­stamento.
I sostenitori delle diverse forme di selvicoltura identificate con l’aggettivo naturalistica o espressioni similari – invece di fare discussioni pregiudiziali sulla selvicoltura sistemica che incontrovertibilmente si basa su postulati, teorie e finalità assolutamente diverse – farebbero bene a indicare qual è l’assioma, le linee operative e le finalità che differenziano in modo chiaro e inequivocabile tali diverse forme colturali, dando un contributo scientifico e tecnico che tutti i forestali apprezzerebbero. E ciò a conferma che sussiste un problema di conoscenza in merito a ciò che è scienza e ciò che è tecnica. La discriminante quasi sempre non è messa chiaramente in evidenza, anzi, a tal proposito, spesso c’è grande confusione.

11. L’ipocrita conservatorismo dell’aggettivazione della selvicoltura
Nel 1981, ventinove anni fa, ahimè come passa il tempo!, in una lettura dal titolo I massimi sistemi in selvicoltura, svolta all’Accademia Italiana di Scienze Forestali, mi soffermavo sull’aggettivazione della selvicoltura. La lettura mi era stata sollecitata dall’allora Presidente Generoso Patrone con il quale su sua richiesta avevo incontri settimanali (Ciancio, 1994b). In quei colloqui, assai produttivi per la mia formazione scientifica, spesso manifestavo opinioni diverse dalle sue poiché egli, differentemente da me, era un fermo e coerente assertore del bosco coetaneo, della teoria del «bosco normale» e della preminenza dell’economia sull’assestamento e la selvicoltura.
In quella lettura sostenevo la tesi che la selvicoltura in quanto disciplina non doveva essere aggettivata (Ciancio, 1981). E ciò per diversi motivi, tra i quali:
1) l’aggettivazione, superando l’intento di chi l’ha usata e continua a usarla, inevitabilmente ha condotto, e non poteva essere altrimenti, alle interpretazioni più disparate;
2) con l’aggettivo «naturalistica» non si può identificare la selvicoltura in quanto disciplina, altrimenti secondo logica bisognerebbe accettare l’idea dell’esistenza di una selvicoltura «non naturalistica», tesi del tutto improbabile se non impossibile da far accettare ai forestali, ai naturalisti e agli ambientalisti;
3) con le varie perifrasi, alcuni sogliono definire sistemi colturali totalmente diversi e contrapposti a cui corrispondono differenti dottrine; altri intendono far riferimento agli ordinamenti produttivi e alle forme colturali cui il bosco è assoggettato; altri ancora vogliono indicare semplicemente indirizzi e tendenze che perseguono obiettivi e finalità varie in funzione dei bisogni dell’uomo nei momenti evolutivi dello sviluppo sociale e delle conseguenti necessità emergenti;
4) gli studiosi, i docenti, i ricercatori e i tecnici con le varie perifrasi tendono a privilegiare quegli aspetti selvicolturali più congeniali alla loro formazione tecnica, scientifica e culturale nell’intento, anche se non esplicitamente dichiarato, di meglio precisare e specificare la loro attività;
5) studiosi, docenti ed esperti di notevole valore per chiarire meglio il proprio pensiero, impostano la discussione in questa chiave, innescando processi che portano più spesso a sterili polemiche anziché alla chiarezza e all’approfondimento delle idee.
Resto fermo su questa posizione e faccio notare che quanto prima esposto sta a indicare la grande confusione che regna in materia. Mentre alla fine del XIX secolo era giustificabile la preoccupazione di denunziare con forza e determinazione la necessità di un ritorno alla natura, vista anche la dottrina selvicolturale impressa dalla Scuola tedesca, oggi, a parer mio, l’aggettivo naturalistica e le varie perifrasi, l’approccio o l’indirizzo naturalistico, sono un modo come un altro che fa giuoco ai forestali per attenuare, e sottolineo attenuare, le critiche di alcune frange di naturalisti e ambientalisti.
Ma, a ben guardare, tale posizione è frutto di un ipocrita conservatorismo che poco o nulla ha a che fare sul piano scientifico con i metodi colturali dei sistemi biologici complessi, come peraltro ben sanno gli uomini di scienza che questi problemi hanno iniziato ad affrontare con grande impegno a partire dagli anni Settanta, cioè i biologi, gli ecologi, i naturalisti, gli ambientalisti e, non ultimi per importanza, alcuni forestali.

12. Le «sterili disquisizioni» e le sfide del mondo forestale
Premetto che dei sette articoli in questione – non me ne vogliano gli altri A.A. – quelli che più mi hanno interessato, per alcuni spunti stimolanti da un lato, per taluni aspetti non condivisibili dall’altro, sono quelli di Marcello Mazzucchi (2009), Direttore del Distretto forestale di Cavalese (TN), quello di Gian Battista Sangalli (2009), Direttore Servizio Foreste e Bonifica Montana Comunità Montana di Valle Camonica (BS) e quello di Alessandro Wolynski (2009), Presidente di Pro Silva Italia.
È doveroso annotare che ad alcuni degli Autori dei sette articoli è già stata data una risposta. In particolare, al Documento Ammini­strazioni Forestali del Nord Est (2009) ha risposto in modo convincente Francesco Iovino (2009), mentre agli interventi di Marco Paci (2009) e di Pietro Piussi (2009) ha replicato Susanna Nocentini (2009). In queste risposte tra l’altro si indica dove e come sia già in atto l’applicazione della selvicoltura sistemica, anche se non codificata nei «sacri testi». Per rendersi conto di ciò basterebbe fare il selvicoltore nel laboratorio di tutti i forestali, cioè in bosco!

 12.1. Il «serio rischio» della selvicoltura sistemica!

In merito all’articolo di Pietro Piussi e alle inutili quanto speciose suddivisioni delle superfici a bosco e quant’altro dedotte dall’Inventario Nazionale Italiano delle Foreste e dei Serbatoi di Carbonio, domando: forse lo stimato interlocutore pensa che in una mozione finale di un Congresso si possano inserire analisi e suddivisioni di tal genere? Questo è un modo come un altro per sfuggire alla realtà. Come recita un vecchio detto, sono solo e solo «questioni di lana caprina»! Sono «questioni di lana caprina» anche perché quelle dell’interlocutore sono riflessioni che servono per analizzare taluni problemi che peraltro sono stati esposti al Congresso e poi riportati negli Atti. Ma non basta. Purtroppo devo ritornare su una questione di ordine tecnico e scientifico da lui posta quando afferma: «Penso che la sostituzione di forme di gestione del bosco maturate attraverso il tempo ed adattate a particolari specie legnose e ambienti ecologici e sociali con un nuovo approccio, così come proposto dalla mozione votata a Taormina, per ora privo di una verifica empirica, possa costituire un serio rischio».

Allo stimato interlocutore chiedo: quale «serio rischio» può costituire la selvicoltura sistemica? Forse il taglio a raso e la rinnovazione artificiale, o i tagli successivi più o meno uniformi, o il taglio saltuario con relativa norma? Crede forse che queste forme colturali facciano parte della selvicoltura sistemica? Quale elemento concreto lo ha condotto a una tale riflessione? La sua non è forse, come dire?, una interpretazione fantasmatica? Eppoi, in campo biologico è possibile oggettivare una prova empirica? Questa sì, è una vera e propria eresia scientifica!
Se ciò non bastasse, vorrei ricordare a Pietro Piussi quanto afferma François Jacob (1983), premio Nobel per la medicina nel 1965: «Si può sicuramente esaminare un oggetto per anni senza mai trarre la minima osservazione d’interesse scientifico […]. Nel procedimento scientifico è sempre la teoria ad avere la prima parola. I dati sperimentali possono essere acquisiti, assumere significato, soltanto in funzione di questa teoria».
E, ancora, quanto osserva Claude Allègre (1995): «Senza un modello teorico, un’osservazione o un esperimento non hanno alcun significato. Contrariamente a quanto hanno creduto i naturalisti ingenui, non esiste scienza obiettiva che si accontenti di descrivere e di classificare gli oggetti in attesa che questa accumulazione di fatti finisca per sfociare automaticamente in una sintesi teorica».
Per meglio rendersi conto della questione basta aggiungere quanto sostengono alcuni importanti studiosi. Giacomini (1964) afferma che «il primo problema che si pone oggi in argomento di foreste è un problema di conoscenza» e Milinsek (1978) pone come elemento principale di riferimento per una corretta e razionale azione selvicolturale «il metodo conoscitivo su basi informative teoriche».
Ne discende che a qualsiasi livello di responsabilità si operi, è indispensabile che tutti si convincano della necessità di trasporre il metodo conoscitivo al tecnicismo empirico che invece conduce alla formulazione di schemi e semplificazioni inidonee alla risoluzione della vasta e complessa questione forestale.
In breve, al di là dell’improponibile problema scientifico sollevato da Pietro Piussi e malgrado le sue inverosimili preoccupazioni, rassicuro lo stimato interlocutore. Egli può essere certo che l’applicazione dei princìpi della selvicoltura sistemica non costituisce né per il sistema bosco, né per il «contesto socio-economico» alcun «serio rischio». La teoria della selvicoltura sistemica, nel porre come principio inderogabile la difesa delle prerogative dell’entità biologica bosco, pone in essere anche, e soprattutto, la difesa degli interessi delle popolazioni locali e, più in generale, dell’uomo. E, appunto perciò, in definitiva si concreta in una forma colturale altamente economica.

12.2. La filosofia dello sfruttamento del bosco!
Sull’intervento di Giovanni Hippoliti (2009), in linea di massima condivido il commento di Paolo Mori (2009) nel quale si mettono in evidenza in modo elegante nella forma, ma duro nella sostanza, vari significativi distinguo. A leggere certe opinioni, a dir poco, mi viene, se non proprio da ridere, certamente da sorridere.
Alle volte mi domando se per fare alcune operazioni pratiche occorrano cinque anni di Università o se forse non sarebbe meglio un corso di formazione della durata di tre mesi per operatori di motosega e mestieri affini. In tal modo, i giovani laureati forestali rientrerebbero a pieno diritto tra gli esecutori dei mestieri indicati dal Di Bérenger (1865). Mestieri di assoluto interesse – agli interpreti dei quali va tutto il mio rispetto – ma che certamente non rappresentano la professionalità dei laureati forestali. Secondo il nostro interlocutore solo e solo così la selvicoltura non sarebbe «un’astratta filosofia»; non sarebbe fantasia ma realtà! E in tal modo i portatori di idee nuove, che fanno solo filosofia, non potrebbero usarle «come strumento, come argomento nelle competizioni per la dominanza accademica»!
Mi chiedo e chiedo: se così fosse, allora perché non abolire i Corsi di Laurea in Scienze forestali e ambientali e licenziare, o meglio, per usare una terminologia cara allo stimato interlocutore, «disboscare» i docenti universitari? In un momento di crisi come l’attuale sarebbe un gran risparmio per la collettività! Bando all’ironia, con questi argomenti si propugna un’assurdità e al tempo stesso si provoca un grave danno alla professionalità dei forestali, allo sviluppo del settore forestale, al progresso scientifico e, non ultimo per importanza, al bosco.
Lo stimato interlocutore si è mai posto questa semplice domanda: a cosa serve lo studio dei rapporti tra clima, suolo, macroflora e microflora e tra l’influenza della macrofauna e della microfauna sulla funzionalità del sistema bosco? Si è mai chiesto a che scopo negli Istituti di ricerca di tutto il mondo si studiano le interazioni tra gli innumerevoli componenti del sistema biologico complesso bosco? Si tratta di filosofia o di ricerca scientifica? La ricerca scientifica è fantasia o realtà? Forse si fa tutto questo come strumento per conseguire la dominanza accademica?
Hans Leibundgut (1960) osserva: «Dove vengono a mancare interi gruppi di specie animali, come negli ambienti antropizzati, si verificano pertanto mutamenti nella biocenosi, che devono esser definiti vere e proprie «malattie di cenosi». I danni da insetti o da animali superiori, che ne derivano, non hanno perciò che significato di sintomo di uno stato patologico».
E più oltre: «La spiegazione di tali fenomeni a mezzo di singoli fattori ecologici, come le condizioni di luce, il rifornimento di azoto, la disponibilità termica ed udica ecc., si dimostra sempre troppo semplicistica. I fattori fisici e chimici a sé stanti vengono spesso invocati a spiegazione dei fenomeni biologici solo per il fatto che la loro entità è facilmente misurabile. I processi microbiologici della rizosfera, così poco appariscenti, come l’influenza della fauna, vengono invece di norma trascurati o non abbastanza considerati».
Domando: forse Giovanni Hippoliti pensa che anche Leibundgut faceva «astratta filosofia»? Cosa non fa fare e cosa non fa dire lo sterile dogmatismo del pensiero unico!
Inoltre, all’interlocutore chiedo: quali le motivazioni che sostengono simili argomentazioni? La nostalgia dell’empirismo in selvicoltura del XVIII secolo la cui «filosofia» – questa sì «filosofia» – era quella di tagliare e tagliare quanto di meglio vi era nel bosco al fine di ottenere il massimo tornaconto possibile? O, forse, il rimpianto per la «realtà» dello sfruttamento per lo sfruttamento del bosco?
Una filosofia a quanto pare dura da abbattere se ancora oggi nel XXI secolo si continua a pensare in questo modo. E il bosco? Il bosco non conta. Ciò che conta è l’interesse finanziario. Questa sì è realtà, il resto è solo fantasia!
Forse Giovanni Hippoliti non si rende conto che nel sostenere simili tesi, oltre ad arrecare i danni prima elencati, se ne aggiunge un altro ancora più grave, cioè si finisce con il disconoscere la conoscenza e la cultura e, perché no?, si insulta l’intelligenza! Cos’altro aggiungere? A leggere certe cose si resta, come dire?, allibiti, senza parole. Ripeto: questa sì è realtà, ma una triste realtà!

12.3. La cosiddetta selvicoltura naturalistica e i «sacri testi»
Nocentini (2009), oltre a Paci e a Piussi, ha risposto anche a Wolynski, ma su questo contributo desidero intervenire anch’io, visti anche gli argomenti di riflessione che propone; alcuni condivisibili, altri no. Mi spiace per lo stimato interlocutore ma, come dimostrerò più avanti, credo di poter affermare che, – tranne due o tre aspetti, di cui uno non particolarmente incisivo per dirimere il dibattito in corso – tra la cosiddetta selvicoltura naturalistica, almeno come egli la concepisce, e la selvicoltura sistemica non ci sono analogie, mentre ci sono tante, tantissime differenze che egli evidentemente o non ravvisa o ravvisa solo in parte.
A onor del vero si deve dire che gran parte degli ottimi risultati conseguiti in passato per la salvaguardia, la valorizzazione e il miglioramento di quel grande, meraviglioso sistema biologico complesso bosco si debbono anche e soprattutto alla cosiddetta selvicoltura naturalistica. Epperò, si deve fare un’importante distinzione. Gli aspetti tecnici, codificati nei «sacri testi» che cercano di identificare la suddetta forma colturale, nella pratica operativa quasi sempre sono stati ignorati o disattesi.
Ciò è confermato in modo incontrovertibile da Del Favero et al. (1999b): «Il modello misto e disetaneo trattato con interventi frequenti e su piccola superficie, ad imitazione di un presunto analogo funzionamento delle foreste vergini, ha rappresentato per molti forestali la via da perseguire almeno idealmente. Nella pratica poi, la limitata applicabilità in molte circostanze di questi modelli ha spesso portato ad operare seguendo maggiormente l’intuito e l’esperienza».
Silvia Bruschini (2009), alla quale bisogna dare atto della visione in positivo della problematica, a commento dell’articolo di Sangalli, del quale si dirà subito dopo, sostiene che esistono alcuni casi nei quali si fa buona selvicoltura. Il fatto è, si può esserne certi, che anche in quei pochi casi, che però non fanno testo, le regole che la letteratura segnala per le cure colturali e il trattamento delle fustaie quasi sempre non sono state tenute in alcun conto.

12.4. Per restare «con i piedi per terra», le elucubrazioni non servono!
Ai forestali, malgrado le gravi difficoltà che segnala Gian Battista Sangalli (2009), bisogna riconoscere che hanno sempre agito con saggezza, sfruttando l’esperienza e l’intuito che costituiscono a un tempo la conoscenza e l’arte selvicolturale e gestionale. Come non concordare in questo con lo stimato interlocutore? E così anche quando egli afferma che bisogna agire sulla classe politica per dare sostegno alla professionalità che contraddistingue i forestali e di conseguenza alla selvicoltura e alla gestione sostenibile.
Per restare «con i piedi per terra» devo però ricordare a Sangalli, facendo ricorso alla mia lunga esperienza, che senza iniziative scientifiche innovative che supportino adeguatamente le tesi da proporre, difficilmente la classe politica prenderà a cuore le questioni poste.
Le idee nuove e un dibattito serrato, ma costruttivo come quello in essere, possono e devono riuscire a far comprendere all’esterno del mondo forestale, che tradizionalmente è sempre chiuso in se stesso, quanto si fa nell’interesse del bosco e quindi della collettività e in tal modo sostenere l’importanza della professionalità forestale. Mi spiace quindi dissentire dall’interlocutore, ma nella fattispecie non si tratta di «disquisizioni teoriche». Le cose non stanno così. Solo attraverso i risultati acquisiti con la ricerca scientifica ci si occupa dei problemi reali del settore forestale.
In breve, contrariamente a quello che pensa lo stimato Gian Battista Sangalli, solamente proponendo tesi innovative e caratterizzanti la professionalità forestale si resta, appunto, «con i piedi per terra»! Diversamente, con le sterili elucubrazioni unite alle solite italiche geremiadi invece di risollevare il settore forestale lo si danneggia e, per di più, in modo irreparabile.

12.5. a cosiddetta selvicoltura naturalistica, l’ecosistema e la «normalizzazione»
A Marcello Mazzucchi è doveroso riconoscere lo sforzo che egli compie per portare a conoscenza dei giovani e non quanto ha acquisito con l’esperienza nell’attuare una selvicoltura attenta agli insegnamenti della Scuola padovana – Scuola di assoluto valore per i tanti magistrali contributi che hanno determinato il progresso delle Scienze forestali. Questo suo atteggiamento mi ha portato da sempre a seguire con grande interesse quanto egli ha elaborato e scritto.
È pur vero, però, che recentemente egli sostiene la necessità di non aggiungere aggettivi al sostantivo selvicoltura (Mazzucchi, 2009). Di più, afferma che è necessaria una selvicoltura senza etichette (Mazzucchi, 1997). In tal modo, forse senza rendersene conto, egli entra in contraddizione con se stesso.
Difatti, in vari scritti egli ha sostenuto la validità di aggiungere al sostantivo selvicoltura l’aggettivo naturalistica (9) (Ferrai e Mazzucchi, 1981; Mazzucchi, 1985; 1989). Se si aggiunge l’aggettivo naturalistica al sostantivo selvicoltura, allora la si qualifica, al contrario di quanto egli afferma, con un aggettivo che è anche una precisa etichetta: «selvicoltura naturalistica». A ciò s’aggiunga l’insistito uso del termine normalizzazione (10). Per dirla con il suo modo di esprimersi, questo sì è un «linguaggio di casta» e per di più inaccettabile dal punto di vista etico. Il bosco è un’entità vivente le cui peculiarità non possono essere ordinate e stravolte al fine di conseguire un tornaconto a vantaggio solo e solo dell’uomo.
Ora, però, non può non sorgere una domanda che, con la più sincera stima, rivolgo a Marcello Mazzucchi: cosa c’entra la normalizzazione con quello che avviene in natura? La normalizzazione – credo che anch’egli possa condividere – attiene a una costruzione coercitiva del bosco da parte dell’uomo che non ha niente che possa fare riferimento al naturale.
La normalizzazione fa riferimento al solo, e sottolineo al solo, principio agronomico – o, per usare la terminologia in voga in campo forestale, «principio produttivo» – per ottenere il massimo reddito finanziario. Ancora una volta, malgrado le tante ipocrite chiamate in causa dell’ecosistema e della sua funzionalità, il tornaconto prevale sulla biologia e sulla selvicoltura.
Ma, la stima verso Marcello Mazzucchi è tale che, anche se oggettivamente è difficile comprendere e spiegare questo dato di fatto e tali asserzioni, voglio immaginare e credere – pur facendo straordinarie quanto improbabili contorsioni mentali oltre che grammaticali per trasformare un aggettivo in sostantivo – che forse egli con il termine «naturalistica» voglia qualificare, appunto, la «selvicoltura naturalistica» come una disciplina a sé stante, diversa anche dalla selvicoltura in quanto tale, a meno che egli non consideri il termine «naturalistica» né un aggettivo, né un’etichetta.
Mi spiace quindi dover rigettare quanto egli sostiene quando con giudizio, come dire?, sprezzante, afferma: «Mi chiedo allora cosa mi può dare in più questa cosiddetta selvicoltura sistemica. Ben venga il confronto di idee che è pur sempre segno di vitalità culturale, ma il timore è che in questo modo ci si perda in sterili disquisizioni [il corsivo è mio] quando ben altre sfide concrete, importanti, impegnano oggi il mondo forestale…».
A questo punto sono io a domandarmi se egli si sia mai chiesto quale assioma e quali teorie conseguenti sostengano la cosiddetta selvicoltura naturalistica e quali, invece, siano i postulati e le teorie su cui poggia la selvicoltura sistemica. Se non vi ha trovato alcunché di nuovo, se pensa che la selvicoltura sistemica non possa dargli nulla in più rispetto alla cosiddetta selvicoltura naturalistica, allora sarebbe utile che lo stimato interlocutore – e come non si potrebbe stimare chi dichiara con giustificato orgoglio di aver martellato un milione di piante – lo esem­plificasse sul piano epistemologico, teorico, scientifico, tecnico e infine, ma non ultimo per importanza, sulle finalità delle due forme selvicolturali. Perché in tutto ciò che attiene alle libere creazioni della mente umana, in ultima analisi è sempre il fine che fa la differenza.
Dall’esame dell’articolo in questione pare proprio che egli non dia peso a questa tematica, che abbia deliberatamente rimosso la problematica, lasciandomi alquanto perplesso anche perché da sempre ho analizzato con attenzione i suoi contributi, con particolare riferimento proprio alla cosiddetta selvicoltura naturalistica.
La posizione critica di Marcello Mazzucchi, a mio avviso, è la dimostrazione di un elevato grado di passionalità e, appunto perciò, non pare abbia particolari giustificazioni scientifiche. La problematica, invece, imporrebbe che la ragione debba dominare le passioni. In breve, credo che la questione in essere si possa esemplificare con un aforisma che nella fattispecie è anche un’etichetta: Il giudizio più assoluto e inamovibile è appunto il pregiudizio!

13. Il dogma delle generalizzazioni, il pensiero unico e la selvicoltura del Nord Est
Nell’esaminare gli articoli che sostengono il dibattito in corso, più volte mi sono posto una domanda: i sostenitori delle varie forme della cosiddetta selvicoltura naturalistica si sono chiesti se in tanto fervore nel sostenerle non ci sia quanto basta per temere che risorga il dogma delle generalizzazioni?
Negli articoli in questione sembra che un tale pericolo non venga minimamente preso in considerazione. Eppure, lo si sa, le generalizzazioni in campo biologico sono un grave errore e, in definitiva, rappresentano un vuoto di analisi scientifica e culturale.
In selvicoltura le generalizzazioni, come le passioni, non conducono al progresso scientifico, ma al contrario risultano pericolose e dannose perché in sé portano il germe nefasto dell’assolutismo e del dogmatismo, cosicché, o semplificano eccessivamente i problemi e i casi reali, o sono la causa prima di clamorosi fallimenti. Inoltre, offuscano il pensiero e confondono le idee.
A tal proposito, per l’ennesima volta desidero ribadire che in campo scientifico non può esistere un pensiero unico e che le verità scientifiche sono tali perché provvisorie e quindi mutabili nel tempo a seguito dell’acquisizione di nuove conoscenze che le rendono obsolete. Ogni ricerca, anche quella più avanzata e innovativa, nel tempo è destinata ad acquisire valore storico.
Se questo è un punto a tutti chiaro il dibattito può continuare, altrimenti è meglio abbandonarlo subito perché non si andrebbe da nessuna parte. L’egemonia culturale da qualunque parte venga è inaccettabile, e non soltanto sul piano scientifico.
Malgrado il sincero rispetto che nutro per tutti coloro che operano in bosco con passione, esperienza e intuito e in modo particolare per Marcello Mazzucchi – anch’io nella lunga carriera svolta in tutte le amministrazioni a carattere forestale, intercomunali, regionali, statali, Enti di ricerca, Università, ho effettuato numerose martellate, anche se credo di non aver raggiunto il traguardo di un milione di alberi – devo sottolineare che nel suo scritto e nel Documento Amministrazioni Fore­stali del Nord Est (11) (2009) è evidente un pregiudizio tecnico e culturale che si può così esplicitare: quello che si sa del bosco e quello che si fa nel bosco del Nord Est è il Vangelo, e sottolineo il Vangelo, della selvicoltura. E appunto perciò va fideisticamente accettato, seguito e preso a esempio per convertire – e non mi riferisco alla conversione dei cedui in fustaia! – chi non si ritrova in questi dettami. Tutto il resto sono sterili disquisizioni che non risolvono le sfide che incombono sul mondo forestale.
Mi domando e domando: con un simile pregiudizio tecnico e culturale non si disconosce l’importanza dell’innovazione scientifica in selvicoltura? È accettabile una simile proposizione agli inizi del XXI secolo? Si può forse concludere che tutti i boschi del nostro Paese siano uguali o similari a quelli del Nord Est? Non c’è forse un po’ di esagerazione mista a un certo grado di presunzione in tutto ciò?
Se ciò fosse vero – epperò, sono certo che così non è – allora significherebbe che si argomenta secondo un nuovo integralismo conformistico che parrebbe caratterizzare i tecnici e gli amministratori forestali del Nord Est, assi­milabile per certi versi, e sottolineo per certi versi, al fondamentalismo che ha guidato la selvicoltura in centro Europa a partire dal periodo scolastico di Hartig, Cotta, Hundeshagen, Pressler ecc. fino agli anni Ottanta del secolo scorso.
Forse è utile ricordare che Aldo Leopold nel 1936, dopo un periodo di studi trascorso in Germania e Cecoslovacchia, annotava che, in Germania a seguito del fenomeno della coltivazione dell’abete rosso, le «foreste miste e la rinnovazione naturale divennero relitti arcaici». Ma le cose a suo parere stavano cambiando e scriveva: «I tedeschi si rendono conto ora che l’incremento (di legno) comprato a spese della salute del suolo, della bellezza del paesaggio e della selvaggina è economia scadente, oltre che scadente politica pubblica».
Ma così non è stato, se è vero, come è vero, che Wolfe e Berg nel 1988, cioè a distanza di 52 anni, a seguito di una attenta ricerca, documentano che la picea e il pino silvestre occupano, rispettivamente, il 40 e il 20% della superficie forestale della Germania occidentale. Il sistema colturale prevalente è ancora il taglio raso con rinnovazione artificiale. I turni per l’abete rosso sono sempre di 80-100 anni. Contrariamente a qualsiasi previsione, essi affermano che la superficie a picea rispetto al secolo scorso invece di diminuire è aumentata. Con buona pace di Aldo Leopold e delle sue previsioni!
Il motivo di questa mia riflessione è semplice. Se veramente fosse come illustrato nei recenti sette scritti, allora bisognerebbe disconoscere un fatto incontrovertibile: ovvero che il nostro Paese si prolunga nel Mediterraneo con formazioni forestali tra le più biodiverse in Europa e, appunto perciò, estremamente variabili da Nord a Sud e da Ovest a Est, ma anche tra le stesse regioni che lo compongono.
Di più: la cultura nei confronti del bosco è multiforme e assai diversificata. Basti pensare all’influenza sulla gestione forestale del patrimonio di conoscenze asburgico al Nord Est, di quello dei Savoia al Nord Ovest, di quello dei Lorena al centro – Granducato di Toscana – e di quello dei Borboni al Sud – Regno delle due Sicilie. Se ciò è vero, allora Marcello Mazzucchi e gli amministratori forestali del Nord Est dovranno onestamente riconoscere che sul suddetto pregiudizio tecnico e culturale non si può essere d’accordo e, a dire il vero, credo che nessun forestale, esclusi evidentemente quelli del Nord Est, possa condividerlo.
Si dirà che un forestale che opera in campo – e Mazzucchi lo è – e gli amministratori del Nord Est non sono tenuti a occuparsi di scienza, ma di tecnica sulla cui maestria tutti concordano. Però così non è. I loro contributi sono degni della massima attenzione e dimostrano il loro interesse per gli aspetti scientifici relativi alla selvicoltura.
Tuttavia, poiché lo scritto di Mazzucchi è antecedente alla pubblicazione degli Atti del Terzo Congresso di Selvicoltura, amichevolmente gli consiglio – e il consiglio ovviamente si estende agli altri dieci A.A. dei sette articoli – di leggere senza pregiudizi ideologici, ripeto senza pregiudizi ideologici, la relazione introduttiva (Ciancio, 2009a). E verificare quali linee di ricerca presumibilmente saranno affrontate nei prossimi dieci, cinquanta, cento anni. Egli e gli altri A.A. forse si renderebbero conto di quale importanza potrebbe avere il contributo della ricerca per lo sviluppo scientifico e tecnologico forestale, rendendo obsoleta anche la selvicoltura sistemica. E perché no? Anche se con i tempi forestali, lunghi, a volte lunghissimi, è normale che ciò avvenga. Ho più volte sostenuto che tutte le verità scientifiche sono provvisorie e non definitive. Così è, e così sarà, anche per la selvicoltura sistemica.
Inoltre, Marcello Mazzucchi se ne ha voglia e tempo, potrebbe scrivere un altro articolo per chiarire ai lettori di Sherwood il suo vero pensiero sull’argomento. E qualora ritenga di essersi sbagliato nel tono oltre che nella sostanza, nei precedenti contributi o, al contrario, in quello in esame, allora sarebbe utile chiarirlo. Non vi è dubbio che tutti i forestali gli sarebbero grati per un simile atto. E siccome egli è un galantuomo, sono sicuro che lo farà.

14. La logica della selva e quella del reddito finanziario
Dalla lettura dei sette articoli in questione pare ormai assodato un fenomeno sintomatico: ogni forestale che opera in campo ritiene che i problemi che affronta e risolve giornalmente possano essere generalizzati. Si tratta, come prima affermato, di un grave errore princi­palmente per due motivi. Il primo perché in selvicoltura non è possibile oggettivare le esperienze locali: le generalizzazioni così come le oggettivazioni sono delle semplificazioni dei sistemi biologici complessi e, appunto perciò, inaccettabili e improponibili sul piano scientifico. Il secondo è banale, lapalissiano, ed è già stato detto: i sistemi forestali non sono tutti uguali, variano sensibilmente da regione a regione e nella stessa regione da zona a zona. È presumi­bile quindi che ciò che può essere valido a Cavalese non sia valido in Sila o sui Nebrodi.
Sono un estimatore dei forestali che operano nel Nord Est per la competenza da sempre dimostrata nello svolgimento della loro attività. Apprezzo i programmi elaborati con rigore e sapienza e le conseguenti realizzazioni in bosco. Ho letto con interesse, tra gli altri, i contributi di Amerigo Hofmann (1931; 1935; 1938), Alberto Hofmann (1957a; 1957b; 1969; 1984; 1985), Ezio Ferrari (1986), Pietro Luigi Bortoli (1998; 1999), Roberto Del Favero (1996), Romano Masè (2009) e della Direzione Foreste della Regione Veneto (Roberto Del Favero et al., 1990; 1999a; Luigi Masutti e Andrea Battisti, 2007; Piermaria Corona et al., 2010).
Sono convinto della bontà di taluni princìpi che stanno alla base della cosiddetta selvicoltura naturalistica, ma da qui a prefigurarla come l’unica forma colturale e il ritenere che non ci sia nulla di innovativo che la ricerca possa prospettare nell’interesse del bosco e quindi dell’uomo, non me ne vogliano Marcello Mazzucchi e gli altri A.A. dei sette articoli, ci corrono, appunto, anni luce.
Al momento però, come emerge dai sette scritti in questione, gli amministratori forestali del Nord Est rifiutano non solo l’applicazione – e fin qui nulla da dire, anche se in selvicoltura è buona norma aprirsi sempre all’innovazione scientifica, come d’altra parte si addice quando si ha a che fare con sistemi biologici complessi – ma anche la possibilità di analizzare gli assiomi e le teorie della selvicoltura sistemica come eventuale alternativa alle tante forme di selvicoltura che loro propongono con tono, come dire?, infervorato e convinto.
Essi ostentano la cosiddetta selvicoltura naturalistica come la panacea che consente di risolvere tutti i problemi del settore forestale, e non si rendono conto che una tale posizione fa trasparire un fondo di assurdo conformismo. Essi rifiutano la selvicoltura sistemica forse perché, per dirla con Claude Allègre, infa­stidisce non poco. Molto spesso ci si dimentica di cercare di capire e operare secondo la logica della selva, cioè del sistema biologico complesso bosco, per addentrarsi invece in quella del tornaconto, cioè del reddito finan­ziario, che pure ha le sue ragion d’essere, ma che in ogni caso, proprio nell’interesse generale, dovrebbe soggiacere alla logica della selva, ovvero alla logica del diritto alla funzionalità del sistema bosco.
Non ho mai dato un giudizio negativo, né tantomeno sprezzante, sulla cosiddetta selvi­coltura naturalistica. Ogni forma colturale è fi­glia del suo tempo. Bisogna conoscerne i conte-nuti e valutarne i postulati e le teorie che la sosten­gono e quindi procedere nella ricerca al fine di meglio comprendere quello splendido sistema biologico che è il bosco. Da sempre ho riconosciuto che la suddetta forma colturale nella gestione forestale ha prodotto significativi risultati. A esempio, a partire dagli anni Cinquanta, nel Nord Est ha determinato, e non è cosa di poco conto, l’aumento della provvigione dei boschi che era diminuita a limiti selvicolturalmente insostenibili a seguito delle disastrose utilizza­zioni del periodo bellico (Moser, 1955a; 1955b; Susmel, 1955; Sembianti, 1956; Ferrari, 1986).
Per quanto si riscontra in letteratura, con la cosiddetta selvicoltura naturalistica si intendono tutte le varie forme colturali sostenute da un assioma che dal periodo scolastico in poi non è mai stato abbandonato: conseguire il massimo reddito fondiario alla sola inderogabile condizione della continuità del bosco e quindi della produzione legnosa.
Questo assioma, che è sempre presente – ma spesso ipocritamente omesso dai sostenitori italiani e non della cosiddetta selvicoltura naturalistica – in tutte le dispute in campo selvicolturale, nel tempo ha provocato l’adozione di una serie di accorgimenti tecnici, alle volte qualitativi, altre volte strumentali, volti a conseguire l’obiettivo predefinito, ovvero il fine che da sempre ha caratterizzato e continua a caratterizzare l’attività forestale: conseguire un prodotto annuo, massimo e costante. Ancora una volta la storia si ripete. L’aforisma di Giuseppe Tomasi di Lampedusa rende bene l’idea: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».

15. Il tallone di Achille del settore forestale
Le teorie innovative, proprio perché tali, esaminano da una visuale diversa i problemi forestali e tentano di dare un contributo di ordine scientifico che investe il processo di conoscenza e, di conseguenza, affrontano in modo nuovo e più efficace ciò che ho ripetutamente denunziato sin dagli anni Settanta e che, visto come vanno le cose in campo forestale, continuo a denunziare: l’incapacità dei forestali di comunicare con il mondo esterno. Questo è quello che ritengo sia stato e che continua a essere il tallone di Achille del settore forestale.
Attualmente, occorre adoperarsi per affrontare le problematiche che riguardano:
1. la comunicazione in termini comprensibili dei risultati scientifici acquisiti in quel mera­viglioso laboratorio che è il bosco;
2. la preparazione dei nuovi tecnici al fine di far loro acquisire le conoscenze necessarie per ben operare in bosco, lasciando, almeno per una parte del loro tempo, le ricerche al computer che pure sono importanti e in taluni casi decisive per lo sviluppo delle Scienze forestali;
3. la partecipazione della società civile ai problemi della qualità della vita, ai progetti e alle scelte operative in modo che si possa prendere coscienza dell’importanza di una selvicoltura consapevole, svolta nell’interesse del bosco che, appunto perché tale, si river­bera nell’interesse dell’uomo quale componente del sistema;
4. avvalendosi dei risultati acquisiti con la ricerca, agire sulla politica forestale in modo da favorire e rendere efficace una reale, e sottolineo una reale, gestione forestale sostenibile;
5. il bosco è un bene di interesse pubblico e pertanto deve essere coltivato facendo anche ricorso agli strumenti di politica ambientale e forestale; ma poiché, come sostengo ormai da lungo tempo con un aforisma, la selvicoltura è una attività ad alti costi e bassi redditi, è necessario prevedere un sistema di compen­sazione per gli Enti proprietari e, soprattutto, per i privati al fine di creare le premesse per la conservazione e la valorizzazione della biodiversità che, nel periodo della globa­lizzazione e della distruzione delle foreste primigenie, certamente è una assoluta priorità;
6. promuovere le operazioni di miglioramento del bosco e rendere accessibile ai privati quanto avevo fatto inserire nel D.Lgs. 227 del 2001, cioè il rimborso del 36% delle spese sostenute, come si fa per le abitazioni (Ciancio, 2001; Ciancio e Nocentini, 2001).

16. I pregiudizi ideologici e la cultura del bosco
Da quanto sopra è evidente che almeno sui primi punti c’è una visione comune con Marcello Mazzucchi. A parer mio, invece di rinchiudersi in se stessi come da sempre hanno fatto i forestali, sarebbe opportuno tentare di far comprendere ai settori che si occupano di ambiente, territorio, paesaggio, ecologia, fitogeografia, fitosociologia, zoologia, biodiversità (Nocentini, 2008) e quant’altro che l’attività selvicolturale non è indipendente dall’ecosistema come, consapevolmente o meno poco importa, si è operato finora, ma al contrario è dipendente dall’ecosistema.
In questo concetto – indipendente e dipendente dall’ecosistema – c’è gran parte della differenza tra la cosiddetta selvicoltura naturalistica e la selvicoltura sistemica. Le separa un vero e proprio fossato tra idee opposte sia sul piano scientifico e tecnico sia su quello etico e culturale. Se da ogni operazione colturale in primis si ricerca un reddito, malgrado le tante dichiarazioni d’intenti, è necessario agire – lo sa bene chi opera in bosco – in modo da far tornare i conti dell’operazione. Di conseguenza, si guarda in modo parziale e riduttivo alla funzionalità dell’ecosistema o tutt’al più si cerca una via intermedia che, come dice un vecchio detto, possa salvare capra e cavoli. Ma ciò non solo non risolve il problema, anzi lo aggrava. In tal modo spesso non si consegue un riscontro finanziariamente soddisfacente e, per di più, l’operazione è e resta indipendente dall’ecosistema.
Rendersi conto, come previsto dalla selvicoltura sistemica, di questo dato di fatto può consentire l’inizio di un processo di colla­borazione con gli altri settori scientifici in modo da aprire le porte al giusto riconoscimento della professionalità forestale.
Si può essere d’accordo o no, ma questa è la chiave di volta per aprire un dialogo con il mondo esterno ed eliminare invasioni di campo. Altrimenti i forestali saranno sempre più messi al margine delle proprie competenze e soprattutto delle foreste. E a nulla vale che Marcello Mazzucchi si lamenti per «… la recente sentenza della Corte Costituzionale sulla separazione delle competenze fra aspetti produttivi e ambientali del bosco… ». Se ciò avviene di chi è la colpa? Non sarà che i forestali si sono attestati su posizioni tecniche non ben comprese, e quindi istintivamente rifiutate, da chi si interessa al bosco come bene collettivo? Non sarà che i forestali sono rimasti legati a un passato più o meno recente nel mentre i cambiamenti sociali e l’arricchimento conoscitivo in materia di ambiente avanzavano e continuano ad avanzare a ritmi incredibilmente veloci? Non crede Marcello Mazzucchi che una riflessione da parte di tutti i forestali su questo decisivo punto sia doverosa oltre che opportuna?
Una riflessione in grado di superare quello che attualmente è un insuperabile steccato, che sempre si frappone nei dibattiti – anche tra quelli più civili – sulla selvicoltura: il superamento dei pregiudizi ideologici connessi all’ineluttabile e incontrastabile avanzamento della ricerca. Ciò inevitabilmente condurrebbe ad acquisire quella che amo definire la cultura del bosco, senza la quale le teorie, anche quelle più avanzate, le tecniche, anche quelle più eleganti, le pianificazioni, anche quelle con strutture teorico matematiche tra le più sofisticate, resteranno solo e sempre delle buone intenzioni, con grave danno per la professionalità forestale e per la salvaguardia del sistema biologico complesso bosco.
Non si tratta, quindi, come afferma con tono sprezzante Marcello Mazzucchi, di sterili disquisizioni, ma di programmi di ricerca assolutamente innovativi, di metodo rigoroso nell’insegnamento universitario, di supporto scientifico per far comprendere al mondo politico l’importanza del bosco al fine di sostenere adeguatamente i nuovi orientamenti della gestione forestale sostenibile. Non vale rinserrarsi nella propria nicchia, per quanto importante possa essere; non vale piangersi addosso; non vale fare discussioni superficiali o inappropriate; non vale parlarsi all’interno della ristretta cerchia forestale. Occorre uscire allo scoperto, avere il coraggio di vagliare e di accettare le innovazioni scientifiche. Ovvero, bisogna cercare di essere sempre all’avanguardia, guardando avanti e non indietro come pare facciano alcuni, per fortuna solo alcuni, forestali.
Occorre discutere e, se necessario, confrontarsi con gli altri settori scientifici che si occupano di bosco e dialogare con quella parte della società civile che considera il bosco una entità senza la quale sarebbe difficile se non impossibile la vita sul nostro pianeta. Ciò vuol dire impegnarsi su tutti i piani, da quello scientifico a quello tecnico, a quello politico e, non ultimo per importanza, a quello culturale. Ma questo, lo dico a chiare note, non riguarda Marcello Mazzucchi: lo stimo molto per il suo impegno su alcuni di questi decisivi punti.

17. Il Dauerwald e la selvicoltura conforme alla natura
Un eretico forestale, Alfred Möller (1922) – del quale oggi in Italia si sente parlare come assertore di una forma di selvicoltura con affermazioni spesso improprie ed erronee – contestava il principio agronomico o produttivo e del reddito finanziario cui sottostava la scienza selvicolturale tedesca dell’epoca. Da qui l’enunciazione della selvicoltura conforme alla natura. La selvicoltura deve condurre all’ottenimento di boschi sani, stabili, capaci di automantenere la continuità del sistema nel tempo e nello spazio. E tuttavia, malgrado i suoi sforzi, checché ne pensi lo stimato interlocutore Alessandro Wolynski (2009), il principio del realismo economico ha continuato e continua a sostenere la cosiddetta selvicoltura naturalistica e quella con le diverse locuzioni prima riportate. Ovviamente dal 1922 a oggi molte cose sono cambiate, ma non tanto da configurare assiomi e teorie alternative al suddetto principio in grado di supportare adeguatamente tale forma colturale.
Invece di criticare in modo «caricaturale» o per lo meno con «una forzatura» le affermazioni «erronee» inerenti non solo alla cosiddetta selvicoltura naturalistica ma anche, e soprattutto, alla selvicoltura sistemica, Alessandro Wolynski, prima di imbarcarsi in un mare procelloso com’è quello in cui si è accinto a entrare, dovrebbe consultare meglio la letteratura tedesca, francese e, soprattutto, quella italiana che sullo spinoso argomento ha dato contributi di alto valore scientifico e tecnico. Appunto, dovrebbe analizzare più attentamente la letteratura della quale egli con giusto orgoglio fa sfoggio nei suoi scritti.
Scritti, a esempio, quelli di Pro Silva Italia (Pro Silva, 1993; Wolynski, 2002a; 2002b) e ProSilva Europe (de Turckheim, 1993; 1996a; 1996b; 2009; Schütz, 1999; 2008a; 2008b) che leggo con attenzione perché trattano argomenti e propongono spunti di riflessione interessanti.
Per restare nel tema, quando egli scrive di Möller fa riferimento al «… riconoscimento della relazione tra il mantenimento della copertura permanente del suolo, il miglioramento delle condizioni edafiche e il miglioramento delle condizioni ecologiche di sviluppo dei popolamenti forestali, esemplificati dalla gestione delle foreste di pino silvestre su suoli sabbiosi di Bärentoren in Sassonia, presa in gestione [il corsivo è mio] da Möller nel 1920 …». Da questa affermazione è evidente che egli o non è risalito alla fonte o ha letto in modo superficiale l’opera di Möller.
Chi tratta argomenti spinosi come quello in essere deve sforzarsi di essere chiaro, puntuale e preciso. Nello specifico, Alessandro Wolynski dovrebbe sapere che il padrone e gestore del bosco di Bärentoren, al quale fa riferimento Alfred Möller, era il Kammerherr – Ciambellano – Friedrich von Kalitsch che «… nel 1884 successe alla proprietà paterna, alla quale appartenevano 1650 acri di foresta, 1250 dei quali erano popolamenti di pino silvestre con meno di 40 anni, e solo 165 acri con più di 60 anni» (Köstler, 1956). La tecnica del taglio raso adottata fino ad allora a Bärentoren dal punto di vista finanziario era inadeguata; l’utilizzazione della lettiera era un problema serio.
Friedrich von Kalitsch trovò una efficace soluzione alle difficoltà: dopo l’interruzione dell’utilizzazione della lettiera e del taglio raso, i residui delle utilizzazioni vennero lasciati in bosco. Nei soprassuoli trattati in maniera eccellente, ma diradati fortemente si insediò un’abbondante rinnovazione naturale (Köstler, 1956).
Di più e meglio: il Möller venne a conoscenza del bosco di pino silvestre di Bärentoren e di come in esso si svolgeva la coltivazione a seguito di un colloquio con un suo allievo, il nipote di von Kalitsch, che ascoltando le lezioni del promotore del bosco permanente comprese che la gestione effettuata dallo zio nelle pinete di Bärentoren aveva una certa corrispondenza con la teoria del Dauerwald. Möller, informato di ciò, andò a trovare Friedrich von Kalitsch e dopo un attento esame delle operazioni che venivano eseguite e l’analisi dei dati incrementali si convinse di una sostanziale corrispondenza con la teoria del Dauerwald.

17.1. Il bosco organismo, i razionalisti Dengler e Wiedemann e i grandi Maestri del XX secolo
Occorre dire che Möller, morto non molto dopo la sua pubblicazione del 1922, non poté guidare il movimento del Dauerwald. In quel gravoso compito fu sostituito da Wiebecke, von Keudell, Hausendorff, Krutzsch, Ortegel, Früchtenicht e altri. Contro il movimento che stava avanzando si schierarono alcuni elementi moderati, specialmente Dengler e Wiedemann (Köstler, 1956).
Dengler, dell’elaborazione teorica di Möller, contestava, tra l’altro, il concetto di organismo, al quale contrapponeva quello di biocenosi. Egli sosteneva che l’organismo vive e muore, mentre la biocenosi è una entità vivente, costituita da un incalcolabile numero di individui ciascuno dei quali ha un proprio ruolo. Questi possono morire individualmente o in gruppi, ma la biocenosi continua a vivere indefinitamente.
Il concetto di organismo, secondo il razionalista Dengler, era quantomeno inappropriato da accomunare al bosco e inadatto e incongruente da associare alla tecnica selvicolturale. In tal senso con lui concorda Köstler (1950; 1956) quando afferma che la foresta è una comunità vivente naturale governata da certe leggi che non devono essere violate. E ancora: «nella foresta commerciale bisogna tendere verso quelle condizioni di armonia con la natura, cioè condizioni sane, che meglio corrispondono alle leggi ecologiche e biologiche che governano la foresta. Nel costituire l’unità forestale questa enfasi non è superflua, poiché nel passato e anche nel presente si sono verificati o ancora esistono gaps fra gli obiettivi economici fissati e il concetto della foresta in armonia con la natura».
Foresta commerciale, dunque. Ecco una esemplare espressione che rende bene l’idea, usata da un Maestro universalmente riconosciuto come Josef Nicolaus Köstler. Idea che si materializza nell’assioma che governa la cosiddetta selvicoltura naturalistica: obiettivi economici e foresta in armonia con la natura.
In merito alla gestione della foresta di Bärentoren Köstler (1956) annota: «Secondo Wiedemann la produttività nei 50 anni dal 1884 al 1934 è aumentata di mezza classe di produttività; l’aumento nell’incremento dal 1913 al 1934 varia entro i limiti di errore della tavola di produzione di Schwappach del 1908 per il pino. Come era da aspettarsi, non è possibile scoprire alcun guadagno nella produzione di volume. Dal punto di vista selvicolturale, tuttavia, Wiedemann dà pieno credito al miglioramento della forma dei fusti e all’effetto della cura delle chiome, allo sviluppo soddisfacente della flora del terreno e l’uso ammirevole fatto della capacità di rinnovazione. Con le indagini statistiche di Wiedemann le esagerazioni in favore del bosco permanente [il corsivo inserito è mio] indubbiamente sono state riportate nella giusta prospettiva».
A seguito delle accese polemiche scaturite dopo la pubblicazione del 1922 di Alfred Möller, la foresta di Bärentoren divenne ben presto un luogo di visite sia da parte di quelli che sostenevano il Dauerwald sia da parte di quelli che lo contestavano.
Ho sempre sostenuto che tra i Maestri forestali del XX secolo – tra i quali per intuizioni e realizzazioni sperimentali spiccano Henry Biolley e Aldo Pavari – Möller, a parer mio, per l’elaborazione concettuale del Dauerwald è stato certamente il più eminente. Dello stesso avviso è Köstler (1956) quando afferma che il più grande merito di Möller è quello di aver portato i concetti base di Gayer anche nelle pinete della Germania settentrionale. Dove si tratta di una selvicoltura regolata biologicamente e dove la normalizzazione è guardata male, allora lì Möller sarà tenuto in grande stima. Egli si è assicurato un posto d’onore in quel movimento che Karl Gayer introdusse con il suo desiderio: «Volesse (il cielo) che in qualche tempo futuro i nostri boschi debbano registrare un periodo di retrocessione dall’artificiale alla loro forma naturale».
A proposito delle intuizioni di Möller e della conseguente teoria del bosco permanente c’è da segnalare un fatto a dir poco sorprendente. patrone (1979), convinto fautore del bosco coetaneo e della normalizzazione, afferma: «Ma, se il concetto di bosco disetaneo si allarga, se esce dal ristretto significato di struttura e di trattamento della omonima fustaia e assume una dimensione più ampia per identificarsi in un particolare modo, in un singolare spirito generale, con cui i problemi caso per caso, vanno affrontati ed eventualmente risolti, allora, il bosco da dirado può divenire, diviene, una realtà. In questa visione, adombrata da Alfred Moeller, la fustaia da dirado non si identifica in un fatto casuale, bensì con una dottrina filosofica, con una teoria universale».
Qualora Alessandro Wolynski volesse rileggere l’opera di Möller e anche quella di Hans Lemmel (1939), professore all’Accademia Forestale di Eberswalde, che approfondisce e chiarisce puntualmente l’idea di Dauerwald, sono disposto a inviargli fotocopia dei due piccoli volumi che ormai, almeno in Italia, sono quasi introvabili. Ma certamente non ce n’è bisogno: egli li ha già letti e del bosco permanente sa tutto.
Per restare au-dessus de la mêlée, come si conviene in questi casi, bisogna però precisare che von Kalitsch rimproverava a Möller la troppa enfasi che egli metteva nel generalizzare il Dauerwald. Se mi è concessa una parentesi, anch’io sono convinto che un uguale benevolo, amichevole richiamo bisognerebbe farlo ai sostenitori della cosiddetta selvicoltura naturalistica e forme colturali affini.
L’enfasi non fa parte della scienza. Nella scienza domina la ragione e, per dirla con Blaise Pascal, in essa non trovano posto le ragioni del cuore. Sostenere tesi sulla base di personali orientamenti non aiuta a migliorare la comprensibilità della tesi sostenuta, anzi finisce con il danneggiare quanto di buono vi è in essa.

18. La cosiddetta selvicoltura naturalistica e la metafora della «trippa di gatto»
Mi piacerebbe sapere, al di là dei soliti stucchevoli convenevoli di apprezzamento e approvazione che fra di loro si rivolgono i vari A.A. che trattano l’argomento, se la cosiddetta selvicoltura naturalistica illustrata da Marco Paci (2004 (12); 2009) è conciliabile con la concezione che di questa ha Wolynski; se quella indicata da due forestali friulani, come dire? D.O.C., Pietro Piussi e Pietro Luigi Bortoli è uguale o almeno similare e, se sì, se è assimilabile a quella di Wolynski; se quella di Wolynski corrisponde a quella di Marcello Mazzucchi, Gian Battista Sangalli e Giovanni Hippoliti ecc.
A scuola si apprende che invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambia, qui invece cambia e in modo sostanziale. Se poi alla cosiddetta selvicoltura naturalistica si aggiungono tutte le altre forme selvicolturali a essa assimilabili, che evidentemente in quanto tali dovrebbero distinguersi l’una dall’altra, allora non basterebbe l’intero saggio per elencarle e descriverne i contenuti.
Tutto ciò la dice lunga sulla cosiddetta selvicoltura naturalistica. Di questo passo si potrebbe andare all’infinito. In breve, ogni forestale intende la cosiddetta selvicoltura naturalistica a modo suo. Come afferma con una brillante metafora Fabio Clauser (1996) occorre eliminare «… ambiguità, incertezze e contraddizioni che frequentemente fanno della selvicoltura naturalistica quel che in Toscana si dice una trippa di gatto: la quale sembra abbia la proprietà di potere essere tirata da tutte le parti senza mai rompersi».
Ma se così è, se concettualmente si riscontrano differenze in alcuni casi abissali – struttura sì, struttura no; taglio raso sì, taglio raso no; specie esotiche sì, specie esotiche no; «bosco normale» sì, «bosco normale» no, e così via – altro che Vangelo della selvicoltura naturalistica del Nord Est! Qui, se mi è permesso di usare una réclame per lungo tempo adottata dalla RAI, c’è «di tutto, di più». Mi domando e domando: la cosiddetta selvicoltura naturalistica è una astrazione o una realtà? E se è una realtà qual è quella autentica? Domando ancora una volta: si tratta di scienza, di tecnica o di altro?

19. I boschi disetanei e la norma
In merito poi ai boschi disetanei, mi domando se lo stimato Alessandro Wolynski abbia preso in seria considerazione l’importanza della norma teorizzata dalla scuola francese. O se ritenga, così come par di capire dal suo scritto, che essa abbia avuto e abbia scarsa rilevanza scientifica, tecnica e pratico operativa.
Le indagini di François De Liocourt (1898), gli studi di Schaeffer, Gazin e D’Alverny (1930) nelle abetine, quelli di Schaeffer (1931) sui metodi di calcolo della ripresa delle fustaie disetanee e, più in generale, quelli di Huffel (1926), a mio avviso furono determinanti per riconsiderare dal punto di vista della produzione legnosa la fustaia disetanea e il trattamento a taglio saltuario – jardinage cultural. Questi scritti che teorizzano la norma sono studi, ricerche scientifiche o semplici divertissement? Voglio ricordare solo che l’opera di Huffel ha rappresentato, e per alcuni aspetti lo è ancora, un punto di riferimento per la Scuola francese e non solo.
Alessandro Wolynski, peraltro, certamente sa come e con quale determinazione e con quali argomentazioni scientifiche Henry Biolley (1916; 1920; 1922; 1924; 1926), amico di Adolphe (13) Gurnaud e assertore coerente e intransigente del metodo del controllo, si scagliò contro l’«eresia delle curve», cioè contro coloro, i cosiddetti razionalisti, che nei boschi misti e disetanei teorizzavano la norma sia in Francia sia in Italia. Di questi ultimi si indica l’ampia letteratura (Pavari, 1914a; 1914b; 1915a; 1915b; 1916; 1925; 1927; 1929; 1932; 1937; 1938; 1941-42; 1948; Da Rios, 1922; Di Tella, 1924; 1931; 1934; Patrone, 1944; 1970; 1972; 1975; 1979; 1980; Susmel, 1951 e seg.; Cristofolini, 1959).
E ciò a conferma, se ancora ve ne fosse bisogno, di quanto la Scuola francese sostenesse la validità scientifica e l’utilità tecnica e pratica operativa della norma per il trattamento dei boschi misti e disetanei e, al tempo stesso, di come avversasse il metodo del controllo di Gurnaud e Biolley, studiosi che a parere di Alessandro Wolynski e non solo, sono fra i primi promotori della selvicoltura naturalistica.
Nel recente passato, Jean Pardé (1991) non si spiegava come mai Gurnaud fosse il forestale francese più conosciuto all’estero. Questo suo cruccio è una ulteriore dimostrazione di quanto i forestali francesi, perfino quelli del calibro scientifico e culturale di Jean Pardé, fossero convinti dell’utilità della normalizzazione dei boschi misti e disetanei.
Per tornare a casa nostra, invito lo stimato Alessandro Wolynski, se ancora non l’ha fatto, ma sono certo di sì, a leggere o meglio a rileggere i lavori prima citati. Basterebbe questo per chiudere qui la discussione sulla adozione o no della norma nella cosiddetta selvicoltura naturalistica.
Per quanto riguarda poi la teoria del «bosco normale» sempre incombente in campo forestale due sono le cose da dire. La prima, checché ne dica Alessandro Wolynski, nella letteratura italiana ed europea è una costante sia per i boschi coetanei sia per i boschi disetanei. La seconda, la si riscontra costantemente nei piani di assestamento e nelle connesse normative (Hellrigl e Del Favero, 1988; 1990) elaborate dai più alti esponenti che dalla Scuola forestale di Vallombrosa in poi hanno caratterizzato la scienza italiana dell’Assestamento forestale.
Ma questa letteratura forse a Wolynski non interessa o perché l’ha già letta o perché è più portato a conoscere quella svizzera, francese, tedesca ecc. E io viceversa da sempre continuo a dire e a insistere: va bene, anzi benissimo, leggere la letteratura straniera – anche se poi nel citarla non dovrebbero verificarsi gli errori come nel caso di Möller a proposito del Dauerwald – ma forse, poiché siamo in Italia, sarebbe utile e opportuno stare attenti e dare il giusto peso anche a quella del nostro Paese. Sulla quale si può essere d’accordo o no, ma della quale credo si possa andare orgogliosi principalmente perché può vantare ricerche innovative e assolutamente originali che nulla hanno da invidiare a quelle straniere.
Così a esempio: nel mondo scientifico forestale Aldo Pavari per lungo tempo è stato considerato a livello mondiale uno dei più importanti e significativi ricercatori forestali. Generoso Patrone in Francia era considerato, per dirla con Jean Pardé un Patron, ovvero un Maestro, che aveva sviluppato teorie e metodi di alto valore scientifico. In Germania, la Scuola di Assestamento di Firenze la definivano «Scuola Patronenka». Lucio Susmel ha teorizzato e promosso una linea di ricerca che ha permesso di coniugare in modo assolutamente originale l’ecologia con la selvicoltura. Ezio Magini (1967; 1973) ha ampliato le conoscenze sul miglioramento genetico e sui fattori che influenzano la rinnovazione naturale. Altri si potrebbero citare, ma mi fermo qui, cioè a coloro che nel passato maggiormente hanno promosso il progresso delle Scienze forestali.

20. La «selvicoltura d’albero» e la cosiddetta selvicoltura naturalistica
In merito poi alla cosiddetta «selvicoltura d’albero» illustrata da Alessandro Wolynski è intervenuta in modo appropriato Susanna Nocentini (2009). A tal proposito, mi chiedo e chiedo: si tratta di un approccio naturalistico? Oppure, come impropriamente afferma qualcuno, si può considerare il bosco un organismo, così come definito da Möller? O, invero, si pensa al bosco in modo diverso? E, se sì, come? Credo che tutti i forestali su questo argomento dovrebbero essere informati. Per quanto mi riguarda mi metto in fila e attendo di venirne a conoscenza.
E ancora, la «selvicoltura d’albero» si può definire selvicoltura conforme alla natura? O, bensì, come spesso ripete l’apprezzato interlocutore, una volta vicina alla natura, un’altra volta prossima alla natura, un’altra ancora secondo un approccio naturalistico? Mi chiedo e chiedo: quali di queste espressioni si addice alla «selvicoltura d’albero»? O forse, par di capire, queste perifrasi si debbono considerare corrispondenti all’altra espressione, selvicoltura naturalistica?
Ma se così è, allora perché non definirla con tale aggettivo senza altre perifrasi? Insomma, chi più ne ha, più ne metta: un nuovo metodo, certamente incontestabile, per fare chiarezza! Immagino i giovani, studenti e tecnici, che leggono e valutano. Per usare un eufemismo, sconcertante, ma vero!
Si faccia pure la «selvicoltura d’albero», che peraltro in termini linguistici si può assimilare a un anacoluto. Chi la fa, evidentemente ha buone ragioni di tornaconto finanziario per farla. Ma a condizione di non farla passare per selvicoltura conforme o vicina o prossima alla natura o ad approccio naturalistico o a indirizzo naturalistico o con altre espressioni perché in tal caso tali locuzioni contrasterebbero con la scienza, la tecnica, l’etica e, soprattutto, con la logica.
Non ho nulla contro la «selvicoltura d’albero», così come non contesto il bosco coetaneo che invero ha molti motivi per essere coltivato secondo tecniche ormai codificate e, a maggior ragione, certamente non ho niente contro i boschi misti e disetanei e, soprattutto, contro i cosiddetti boschi irregolari – ecco un punto di condivisione con Alessandro Wolynski.
In breve, pur con termini diversi si arriva ai boschi astrutturati, cioè a entità biologiche costituite da un insieme di elementi altamente complesso che al momento non è decrittabile e definibile e, appunto perciò, è scientificamente improponibile con espressioni del tipo: coetaneiforme, disetaneiforme, irregolare. Una analogia? Chissà, forse per Wolynski, certamente non per gli altri A.A. dei sette articoli.
Boschi astrutturati, una locuzione che ha impressionato, tanto da farlo sussultare, qualche ecologo (Anfodillo, 2009) che quantomeno ha il buon senso di non dichiararsi selvicoltore e, appunto perciò, merita stima e rispetto per manifesta onestà intellettuale. Non mi schiero a favore o contro questa o quella forma colturale, come in modo pregiudiziale e improprio, appunto perciò, scientificamente inaccettabile, fanno con la selvicoltura sistemica Marcello Mazzucchi, Alessandro Wolynski e gli altri A.A. dei sette articoli.
D’altra parte, si sa, c’è una realtà incontestabile che da sempre vale nella scienza: gli assertori di teorie superate spesso amano infierire sul nuovo emergente perché come sostiene Claude Allègre (1995) «Ogni idea nuova disturba: essa viene dunque naturalmente combattuta, e tanto più quanto più è originale».
Oltre a quello relativo alla struttura dei boschi, su due altri punti potrei concordare con lo stimato interlocutore Alessandro Wolynski. Il primo riguarda il fine che si propone la selvicoltura sistemica che invero è completamente diverso dal fine che si propone la cosiddetta selvicoltura naturalistica. Ed è proprio il fine tra le due forme colturali che fa la differenza. Basterebbe ciò per giustificare la validità della selvicoltura sistemica. Il secondo punto concerne il fatto che tutte le forme colturali sono il risultato di esperienze e, pertanto, hanno un loro diritto di rappresentanza. A una condizione inderogabile con la quale, però, non so quanto sia d’accordo Alessandro Wolynski: ovvero, purché non si pretenda di procedere a improbabili generalizzazioni o inammissibili oggettivazioni e di ciascuna di esse si chiariscano i presupposti, gli obiettivi, le finalità e le conseguenze sul sistema biologico bosco.

21. L’imprinting e il principio agronomico o produttivo in selvicoltura
È elementare, lapalissiano: tutti parlano di ecosistema, tutti concordano sulla necessità di salvaguardare la funzionalità del sistema, senza però preoccuparsi delle interazioni connesse tra i molteplici componenti del sistema, tranne poi nella realtà – negli scritti ciò è ipocritamente ma brillantemente mascherato – disconoscerne il profondo significato. C’è da chiedersi dove e come sia maturata una tale contraddizione. Anche in questo caso la risposta è semplice: 1) l’imprinting acquisito nel corso degli studi universitari; 2) l’assuefazione acritica al già noto; 3) la sicurezza che operando in tal modo non si incorre in errore; 4) la certezza che nessuno oserà mai contraddire quanto scritto nei «sacri testi».
Un atteggiamento, che se può essere accettato da chi opera in bosco nella quotidianità, non è accettabile da chi, dello studio, della ricerca innovativa ha fatto e continua a fare il motivo fondamentale del suo lavoro e, fuor di metafora, della propria vita. Chi con l’impegno scientifico tende a sviluppare ciò che resta da svelare ne rimane avvinto, e per dirla con Leibundgut, non per un senso di romanticismo, ma per un puro desiderio del sapere. E, invero, conosco e seguo, anche se ormai da lontano, molti giovani docenti e ricercatori impegnati in tal senso. Ciò mi fa ben sperare per l’affermazione della professionalità forestale e per il progresso della scienza selvicolturale e assestamentale.
La cosiddetta selvicoltura naturalistica o la selvicoltura con le più diverse perifrasi sono forme colturali con un univoco principio assiomatico dal quale derivano varie teorie: la massimizzazione della produzione legnosa, l’adozione del turno finanziario o di quello fisiocratico per i boschi coetanei, il diametro di recidibilità per quelli disetanei e la normalizzazione della composizione floristica, della densità, della struttura, della provvigione, dell’incremento ecc. Quanto poi ci sia di naturale nel normalizzare il bosco lo lascio come quesito ai sostenitori di tale forma selvicolturale e gestionale. Anche se, a onor del vero, fra i dieci A.A. solo Alessandro Wolynski su questo precipuo punto – la normalizzazione –, pur se al momento a dire il vero con scarsa fortuna, cerca di sganciare la selvicoltura vicina o prossima alla natura.
Di più: ma non si era detto e scritto che il «bosco normale» è uno stato ideale, utopico (Ciancio et al., 1994; 1995; Colpi e Hellrigl, 2008) e, appunto perciò, irraggiungibile, cioè una vera e propria astrazione? Se così è, come si può connettere una tale astrazione alla realtà? Per dirla con Heinrich Mayr (1909) e Fabio Clauser (1996) quali sono le leggi di natura che si avvicinano a una tale astrazione? La risposta anche in questo caso è semplice: basta forzare oltremisura il sistema biologico bosco al solo scopo di ottenere un prodotto annuo, massimo e costante. Con buona pace della selvicoltura sulla base delle leggi di natura di Heinrich Mayr e di Fabio Clauser!
Dunque è assiomatico, la cosiddetta selvicoltura naturalistica e tutte le altre forme variamente definite che a questa fanno più o meno riferimento non sono niente di più e niente di meno che l’espressione tecnica del principio agronomico o produttivo che, volenti o nolenti, è direttamente o indirettamente collegato alla normalizzazione. Un principio denunciato da Möller (1922) il quale sosteneva che la selvicoltura era stata ed era considerata la sorella minore dell’agricoltura. Egli così si esprimeva: «L’agricoltura è di gran lunga la sorella maggiore, un numero infinitamente maggiore di teste e di mani sono state, stanno e staranno al suo servizio. Quindi non c’è da meravigliarsi se la selvicoltura, consciamente o inconsciamente, è stata tenuta a battesimo da concezioni e norme agricole».
Dopo quasi novanta anni dal saggio di Alfred Möller credo sia venuto il momento di cambiare, c’è un assoluto bisogno di adeguarsi ai tempi, con progetti innovativi condivisi. Tutti i forestali devono impegnarsi, ma forse a tal uopo la speranza risiede nei giovani!

22. Conclusioni
La selvicoltura e l’assestamento forestale investono diversi campi: quello del pensiero, quello scientifico e tecnico, quello economico e sociale e, non ultimo per importanza, quello etico. Al forestale si richiede quindi di possedere in un insieme inscindibile quello che Blaise Pascal definiva l’esprit de géométrie e l’esprit de finesse, perché solo dalla compenetrazione tra intuizione, tangibili dimostrazioni e deduzioni speculative, è possibile intravedere le varie sfaccettature del complesso problema che è chiamato a risolvere.
Questo potrebbe e dovrebbe essere lo spirito, l’essenza della selvicoltura, che non può e non deve basarsi solo sul criterio di una settoriale e limitante valutazione delle forme colturali, ma, al contrario, su una visione più ampia, di orizzonti più vasti, libera e non asservita a schematismi e semplificazioni, validi al più solo per scopi didattici, in cui possano saldarsi per costituire un unico insieme il pensiero e la scienza, l’arte e la tecnica, l’etico e il naturale, l’economico e il sociale.
Prima di chiudere questo saggio desidero sottolineare che sono consapevole di quanto sia difficile per un forestale, che della cosiddetta selvicoltura naturalistica ha fatto il suo credo, accettare e condividere il progetto culturale connesso alla teoria della selvicoltura sistemica.
Un tale passaggio, che indubbiamente implica un sostanziale diverso modo di guardare al bosco, presenta un certo grado di difficoltà. Una idea questa che in campo forestale pone in discussione il modo stesso di fare scienza. Da un lato si mettono in luce i caratteri di fram­mentarietà e variamente diversificati della cosiddetta selvicoltura naturalistica e si va, in modo confuso, alla ricerca del reddito finanziario e dell’utopico, irraggiungibile, «bosco normale». Dall’altro si contesta con una politica elitaria e senza alcuna valutazione scientifica la selvicoltura sistemica.
La considerazione di fondo è che viviamo un periodo di transizione. E, come sempre accade in simili casi, i contrasti si fanno più evidenti, soprattutto in un mondo come quello forestale dove, come è già stato posto in evidenza, ciò che è codificato nei «sacri testi» ha un peso decisivo a livello tecnico e soprattutto ammi­nistrativo e dove la dimensione del tempo e dello spazio del sistema biologico bosco incide in modo significativo. Ma tutto ciò è positivo: l’avan­zamento scientifico e tecnologico oltre che tecnico si realizza attraverso il confronto di idee.
Si può spezzare una lancia in favore della cosiddetta selvicoltura naturalistica, non in quanto disciplina scientifica, bensì in appoggio al suo carattere tecnico. Al contrario, la selvicoltura sistemica ha in sé un carattere esplorativo, congetturale e, per così dire, sperimentale delle elaborazioni teoriche volte alla incessante ricerca dell’ottimizzazione della funzionalità del sistema biologico complesso bosco, basti pensare al metodo scientifico «prova ed eliminazione degli errori».
Nella pratica operativa ciò significa un continuo monitoraggio e la consapevolezza che ogni intervento è la conseguenza di quello precedente e il presupposto di quello successivo. Ma mentre la cosiddetta selvicoltura naturalistica ricerca costantemente un tornaconto a ogni intervento, viceversa la selvicoltura sistemica si pone il fine di salvaguardare la funzionalità del sistema. In breve, si opera in favore del bosco, ovvero di una entità vivente che ha valore in sé.
La teoria della selvicoltura sistemica si basa su un insieme concatenato di postulati e princìpi formulato allo scopo di spiegare i fenomeni naturali. Nella tecnica e nella pratica operativa essa non propone alcun trattamento se non interventi da effettuarsi su singoli popolamenti per assecondarne le necessità, ovvero interventi con la finalità dichiarata di perseguire la vita illimitata nel tempo e nello spazio del sistema biologico complesso bosco e di non intaccare i suoi «diritti». In tal modo, la selvicoltura sistemica è un programma scientifico e un manifesto culturale creativo e propositivo.
Certo, la selvicoltura sistemica è una teoria e, quindi, è falsificabile, come ogni altra teoria scientifica. Ma viene da chiedere: è solo un puro caso che tutti facciano riferimento all’ecosistema per poi intervenire con la cosiddetta selvicoltura naturalistica o forme colturali affini modificando in modo più o meno rilevante le interazioni fra i vari componenti del sistema al fine di ottenere il più alto rendimento finanziario possibile? È davvero priva di fondamento l’idea che il taglio saltuario per pedali con la corrispettiva norma e i tagli successivi più o meno uniformi siano trattamenti assolutamente contrari a ciò che avviene in natura? È campata in aria la concezione che la «selvicoltura d’albero» non è né «conforme alla natura» né «vicina alla natura» ed è quantomeno una forzatura parlare di «approccio naturalistico»?
Questo modus operandi è dovuto all’imprinting, all’apprendimento acquisito precocemente nelle Scuole forestali, che è penetrato profondamente nella mentalità dei selvicoltori ed ecologi forestali e tuttora è la posizione di molti ricercatori che, consapevolmente o meno poco importa, basano il loro operare su un realismo economico dogmatico, senza rendersi conto che, come recita un mio aforisma, «L’ordine razionale del bosco, cui tende la selvicoltura classica, raffigura il massimo del disordine naturale». Sembra quasi che tuttora si continui a pensare come Francis Bacon che nel 1620, nel Novum Organum Scientiarum scriveva che la natura è una donna pubblica; noi dobbiamo domarla, penetrarne i segreti e incatenarla secondo i nostri desideri.
Secondo gli A.A. dei sette articoli in questione, la selvicoltura sistemica non si può condividere o perché è fuori dalla realtà o perché non si differenzia nel trattamento dalla cosiddetta selvicoltura naturalistica. Se mi è concessa una domanda, dagli stimati interlocutori desidererei conoscere cosa significano alcuni degli aspetti che caratterizzano la selvicoltura sistemica. Così, a esempio, cosa significano le tre C della selvicoltura: interventi Cauti, Continui e Capillari? Cosa significano i tagli modulari con i parametri della provvigione minimale? Cosa significa il fine dell’intervento selvicolturale quando si afferma che esso riguarda l’interesse del bosco e quindi dell’uomo? Cosa significa rispettare i «diritti del bosco»? Cosa significa operare con interventi dipendenti dall’ecosistema che a lungo andare sono anche altamente economici? E si potrebbe continuare ancora a lungo.
Per farsi comprendere anche da coloro che al momento giudicano la teoria della selvicoltura sistemica in modo pregiudiziale e ideologico forse bisognerebbe parlare di economia della natura, affinché possano rendersi conto che il sonnambulismo non paga. In sintesi, occorre «parlare con il bosco e operare di conseguenza». Nella convinzione che se si agisce in favore del bosco si fa anche, e soprattutto, l’interesse dell’uomo.
Se questo saggio ha fatto riflettere anche un solo forestale, esso ha raggiunto lo scopo che si era prefisso. Se poi i sostenitori della cosiddetta selvicoltura naturalistica pensano di esaminare la problematica collegialmente – insieme o no, poco importa, ai sostenitori della selvicoltura sistemica – al fine di formalizzarla in modo oggettivo, l’Accademia Italiana di Scienze Forestali dà la propria disponibilità a organizzare a Firenze uno o, se necessario, più incontri per dare ai docenti, ai ricercatori, ai tecnici, agli operatori, agli amministratori, alla classe politica e, soprattutto, agli studenti risposte scientificamente coerenti e chiare.
Con questo intendimento faccio mio quanto scritto dal grande Maestro Lucio Susmel a chiusura della prolusione da lui tenuta in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Accademia Italiana di Scienze Forestali del 1986: «È per questo che […] rivolgo a tutta la famiglia silvana, e specialmente ai giovani, l’esortazione a non chiudersi nell’inerzia o nell’attesa passiva, bensì a continuare unita e concorde con moltiplicato impegno nell’edificazione della scienza e della tecnica forestali».
Concludo ricordando una massima da me coniata: «La scienza è fatta di dati, come un bosco di alberi. Ma un ammasso di dati non è scienza così come un insieme di alberi non è un bosco».

Note
1 Paci M., Una domanda ai selvicoltori; Wolynski A., Selvicoltura Naturalistica e Sistemica. Quali analogie e quali differenze; Mazzucchi M., La selvicoltura e i suoi aggettivi; Piussi P., Tecniche selvicolturali e contesto socio-economico; Sangalli G. B., Rimaniamo con i piedi per terra; Documento Amministrazioni Forestali del Nord Est (A cura di: Munari G., Profanter P., Zanin M., Comino R.); Hippoliti G., La selvicoltura, fantasia o realtà?
2 Già alla fine degli anni Settanta sostenevo la tesi che in selvicoltura occorreva studiare la «complessità del sistema biologico bosco». Venni criticato e paradossalmente, seppure molto maldestramente, lo sono ancora, anche quando la ricerca nel mondo è ormai orientata in tal senso e impegna i ricercatori di molti Istituti di ricerca. Ma, in campo forestale vale sempre la massima del premio Nobel Max Planck: Le nuove idee si affermano solo quando i portatori delle vecchie scompaiono. Così è sempre stato e così sempre sarà!
3 Per eretici in campo scientifico si intendono tutti coloro che prospettano idee innovative che, appunto perciò, non rientrano nel comune sentire dell’establishment scientifico e politico e, quindi, sono rifiutate e combattute.
4 E ciò malgrado un anonimo disattento e frettoloso critico abbia recensito gli Atti del Congresso dando un giudizio inappropriato, improprio e inconsistente. Chi recensisce i lavori di oltre 500 A.A., prima di scrivere dovrebbe leggere e rileggere ogni contributo; prima di esprimersi dovrebbe non fermarsi ai titoli, come chiaramente ha fatto costui. Leggere attentamente prima di esprimersi è doveroso. Non come incautamente ha pensato di fare, almeno suppongo, un qualche apprendista nella redazione di qualche rivista, per quanto importante essa possa essere.
5 Sia ben chiaro: con l’espressione «la cosiddetta selvicoltura naturalistica» non voglio né ironizzare, né recare disvalore alla forma colturale. Il motivo sta nel fatto che le aggettivazioni e le perifrasi inerenti alla selvicoltura sono talmente tante che oggettivamente è difficile sapere a quale forma colturale ciascuno degli interlocutori faccia riferimento.
6 Bourgenot (1950) illustra la figura di Gurnaud in uno scritto molto interessante.
7 Frederic E. Clements (1916) aveva definito superorganism le unità della natura che egli considerava organiche, quindi con un ciclo naturale simile a quello di un essere umano. E la successione della vegetazione forniva la prova che la comunità biotica si comportava come un organismo complesso; detto in altre parole, la natura si poteva considerare come un insieme di sistemi interattivi. La concezione di organismo portava direttamente a concentrare l’attenzione sull’insieme, ribaltando la struttura scientifica dello studio analitico. In campo forestale il sostenitore più autorevole di questa posizione fu Alfred Möller, ma la sua teoria fu criticata duramente.
8 L’Autore del Manuale è Carlo Siemoni, Firenze Tip. Bettini, ma Di Bérenger non ne indica il nome.
9 Nei lavori di Mazzucchi c’è, come dire, un indiscutibile crescendo nell’aggiungere al sostantivo selvicoltura l’aggettivo «naturalistica» e precisamente: una volta nel lavoro del 1981; 9 volte in quello del 1985; 8 volte in quello del 1989; ben 13 volte in quello del 1997.
10 Nel lavoro del 1981 si riscontra, anche se 2 sole volte, la brutta – a mio avviso bruttissima – parola normalizzazione (come l’ha definita nel 1931 Giuseppe Di Tella) e ben 8 volte in quello del 1985.
11 Occorre citare correttamente. Il Primo Congresso Nazionale di Selvicoltura per il miglioramento e la conservazione dei boschi italiani si è tenuto a Firenze il 14-18 Marzo del 1954 e non nel 1956 come erroneamente riportato nel Documento Amministrazioni Forestali del Nord Est. Gli atti sono stati pubblicati in due volumi: il primo nel 1955 e il secondo nel 1956. In questi casi la precisione è d’obbligo, soprattutto per i giovani tecnici e gli studenti che devono essere informati correttamente.
12 Attenzione alle citazioni. Gurnaud e non Gournaud come indicato dall’Autore dell’articolo. Si fa notare solo a fini didattici, ovvero a uso degli studenti.
13 Attenzione alle citazioni. Adolphe e non Alphonse come scrive Wolynski (1998): lo riporto a solo uso degli studenti che leggono più di quanto comunemente si creda.

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